Nelle nostre esistenze ci sono mille possibili biforcazioni, tantissime possibilità di prendere una strada piuttosto che un‘altra. Spesso siamo noi a scegliere da che parte andare, ma ci sono momenti in cui è la vita che sceglie, in cui accadono cose che non controlliamo e che mutano per sempre la nostra traiettoria. Più di vent’anni fa mi aveva colpito un film con Gwyneth Paltrow – si chiamava Sliding Doors – che raccontava come sarebbe potuta cambiare radicalmente la vita della protagonista a fronte di un piccolo dettaglio: riuscire a salire sulla metropolitana per tornare a casa o perderla perché una bambina si mette davanti alla porta. Mi ha sempre affascinato cercare di vedere e capire questi cambi di direzione, è un lavoro che ognuno può fare su sé stesso, ma non mi era mai capitato di incontrare una persona a cui fosse accaduto in modo tanto chiaro e spettacolare come allo scrittore Paolo Nori. E non una, ma ben due volte.
Ma voglio partire dall’inizio, per restituirvi la storia così come l’ho conosciuta: ho incontrato per la prima volta Paolo Nori, che oltre a fare lo scrittore è traduttore dal russo, viaggiatore e professore universitario, poco più di un anno fa. Ci siamo incontrati perché mi voleva parlare di un possibile podcast tratto dal suo libro “Noi la farem vendetta” sulla strage di Reggio Emilia del luglio 1960, quando durante una manifestazione sindacale nel centro della città la polizia uccise cinque sindacalisti iscritti al PCI. Io, invece, avevo pensato che mi sarebbe molto piaciuto che lui facesse un podcast sulla letteratura russa, su Dostoevskij. Dopo aver discusso un po’ le due possibilità, abbiamo deciso che saremmo andati a mangiare.
Appena ci siamo seduti a un tavolino all’aperto, lui mi ha detto a bruciapelo: «Ma eri tu il direttore di Repubblica quando scrissero che io ero morto?». Sono rimasto di sasso e gli ho detto una frase del tipo: «In che senso che eri morto?». «Era il 2013 e una sera di pioggia venni investito da un motorino fuori da una pizzeria, picchiai la testa, fui portato in ospedale e rimasi alcuni giorni in coma. Si diffuse la notizia che io ero morto e voi la scriveste». Per prima cosa ho fatto i conti e gli ho detto che non avevo nessuna responsabilità perché nel 2013 ero alla Stampa, ma a quel punto la curiosità era tantissima e gli ho chiesto di raccontarmi tutto. E lui mentre guardavamo il menù ha aggiunto: «Quella era la seconda volta che mi hanno dato per morto, la prima era stata nel 1999, quando feci un incidente e rimasi intrappolato nella macchina che prese fuoco, una due cavalli grigia e nera. Una macchina bellissima con la quale ero andato a San Pietroburgo partendo da Basilica Nova, che è un paese in provincia di Parma. Ci avevo messo quattro giorni ed è stato il viaggio più bello della mia vita. Rimasi in ospedale per 77 giorni con ustioni su tutto il corpo e anche quella volta si diffuse la notizia che ero morto». Poi, vedendo il mio stupore, ridendo ha aggiunto: «Sono state le due volte in cui io sono stato più famoso nella mia vita».Come potete immaginare, era quella la storia che non mi potevo lasciar sfuggire.
Così, prima di chiedergli altre spiegazioni gli ho detto che Reggio Emilia e Dostoevskij potevano aspettare, che il podcast lo doveva fare sulle due volte che era morto. Siamo rimasti a tavola per due ore e poi lui ha lavorato per quasi un anno e ne è nata una serie potente e meravigliosa, un’indagine sulla propria vita. Perché Paolo, dei suoi due incidenti, ricordava pochissimo, così ha iniziato un viaggio alla ricerca dei protagonisti delle sue storie: i tre ragazzi che lo hanno salvato, tirandolo fuori dall’auto in fiamme, il medico che lo ha operato sette volte, il fratello che aveva dato la notizia alla madre, tutti gli amici che avevano letto che era morto. E poi ancora – quattordici anni dopo – i proprietari della pizzeria che avevano chiamato l’ambulanza, i barellieri, i giornalisti che lo piangevano, la bibliotecaria che quando lo rivide a Bologna andò a toccarlo perché pensava fosse un fantasma…
Un racconto corale che contiene il famoso bivio che cambia la vita: quella telefonata ricevuta quando ancora è in ospedale di una donna – Francesca – che ha bisogno di informazioni per andare in Russia e che al ritorno dal viaggio diventerà la sua compagna e la madre di sua figlia Irma. La loro storia finisce, ma poi riprende perché, quando si sveglia dal coma la seconda volta, trova lei accanto al suo letto.
Quando abbiamo presentato il podcast, al cinema Anteo a Milano, Paolo mi ha presentato sua figlia Irma, che ha 19 anni, e insieme hanno cominciato a raccontarmi un sacco di altre cose, su quanto tutto quello che è successo sia stato determinante nelle loro vite. Ho pensato che questa storia la volevo raccontare anche io e così li ho intervistati insieme nella nuova puntata del mio podcast Altre/Storie. (lo potete ascoltare qui).
La prima cosa di cui abbiamo parlato con Irma, che studia Astronomia a Bologna, è che se non ci fossero stati Alessandro, Roberto e Amir, tre persone così coraggiose da buttarsi a turno nel fuoco per cercare di tirare fuori suo padre da quell’auto in fiamme, lei non ci sarebbe. E questa è la cosa che più l’ha colpita del racconto del padre.
Irma ricorda benissimo la seconda volta, quando Paolo è stato investito, come se il tempo si fosse fermato: «Avevo otto anni e quando abbiamo ricevuto la telefonata che diceva che era stato ricoverato in ospedale, io ero seduta per terra con il gomito appoggiato sul divano, stavo guardando la televisione e c’era ancora Pepe, il nostro gatto». La tennero a casa da scuola per una settimana perché i suoi compagni di classe le dicevano: «Abbiamo saputo che il tuo babbo è morto».
«Quando è uscito dall’ospedale lui e la mamma sono venuti a prendermi a scuola, io non lo sapevo e sono corsa ad abbracciarlo. E poi tutti i miei compagni di classe e la mia maestra hanno fatto lo stesso. Che bello!».
Quel secondo incidente, meno doloroso e con conseguenze fisiche meno importanti, è stato però quello che ha inciso di più, sia sul lavoro di Paolo che sulla sua vita privata: «Quando mi sono svegliato dal coma, la prima persona che ho visto è stata proprio Francesca. Se non ci fosse stato il primo incidente, probabilmente io e Francesca ci saremmo conosciuti lo stesso. Ma se non ci fosse stato il secondo probabilmente non saremmo tornati insieme, perché nell’incoscienza del risveglio le ho detto una cosa che ha riacceso la nostra relazione. Però non voglio dire cosa».
Sono tante le storie di persone che vengono date erroneamente per morte e che così scoprono cosa si pensa di loro. Successe allo scrittore americano Mark Twain che per smentire il necrologio diffuso dall’agenzia Associated Press scrisse un laconico telegramma: “Spiacente di deludervi, ma la notizia della mia morte è grossolanamente esagerata”.
Chiedo a Paolo cosa abbia capito dai commenti alle sue morti: «Quando sono tornato a casa, ci ho messo del tempo a smaltire tutte le mail che mi erano arrivate, messaggi mandati a un morto. Tutte cose belle, ma non credo che fosse quello che la gente pensava veramente di me, perché quando uno è morto diventa subito più simpatico. C’è stata un’ondata d’affetto che mi ha fatto molto piacere che però non ho preso come la verità». Paolo è dotato di un grande senso dell’ironia, ma si capisce che queste esperienze di rinascita lo hanno cambiato in meglio, tanto che la sua chiusura è provocatoria e spiazzante: «Ti posso dire una cosa? Morire la seconda volta è stata proprio una bella esperienza che mi sento di consigliare a tutti».