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25 Novembre 2021

Un filo rosso che ci lega tutti

Quarant’anni fa veniva dato un nome alla prima vera pandemia dei nostri giorni. Da allora l’Aids ha ucciso oltre 36 milioni di persone, ha plasmato, attraverso la paura, la discriminazione e la solidarietà, il nostro immaginario collettivo e ha posto un tema attualissimo: quello dell’accesso universale alle cure. Per celebrare i 20 anni di The Global Fund, il fondo globale per la lotta all’Aids, la tubercolosi e la malaria, ho ripercorso in un podcast la storia del virus dell’HIV, facendomela raccontare da chi l’ha vissuta in prima persona. Come il medico che ne farà la sua ossessione e la ragazza che con un bacio ha cambiato tutto.
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«Era il 1979 e io ero un giovane medico, lavoravo al Policlinico Umberto I di Roma con un grande clinico, si chiamava Giuseppe Giunchi, e curava Papi e presidenti della Repubblica. Ricordo che arrivò un ragazzo, un bel ragazzo giovanissimo, pieno di linfonodi e con una febbre che non passava. Aveva strane cellule nel sangue, per cui si pensava fosse una mononucleosi infettiva. Ma gli esami non lo confermavano. Noi giovani specializzandi brancolavamo nel buio ed eravamo terrorizzati perché non sapevamo cosa dire al grande Giunchi. Quando, durante il suo giro in corsia, arrivò al letto di questo ragazzo, guardò la cartella, mise le sue manone sulla pancia, a quei tempi non c’era neanche la TAC, rimase un po’ in silenzio poi si girò, buttò la cartella sul letto e disse: “Questa è una malattia nuova, perché io non l’ho mai vista”. Pensai che fosse presuntuoso, che non voleva accettare di non riuscire a fare la diagnosi. In realtà aveva ragione, quel ragazzo aveva una malattia che non era ancora stata riconosciuta e che avrebbe avuto un nome soltanto tre anni dopo: Aids». 

La copertina della serie podcast scritta con Silvia Nucini. La prima delle quattro puntate la potete ascoltare qui in anteprima per gli iscritti di Altre/Storie

Quel giovane infettivologo di nome Stefano Vella sarebbe diventato uno dei più grandi esperti di quella malattia, tanto da essere inserito dalla rivista scientifica Lancet tra i 10 ricercatori più importanti al mondo per i suoi studi sull’Aids. Due anni dopo aver incontrato quel ragazzo Vella andò a specializzarsi negli Stati Uniti ed era in Pennsylvania in quell’estate del 1981 in cui uscì il primo articolo che parlava di una rara forma di cancro che colpiva gli omosessuali. Da allora sono passati quarant’anni nei quali il virus dell’HIV ha ucciso oltre 36 milioni di persone nel mondo. Per i primi quindici anni ogni diagnosi, anche se precoce, significava una condanna a morte, poi nel 1996 arrivarono le cure. Ma solo in Occidente. L’Aids diventò la pandemia dell’Africa e, forse ce ne siamo dimenticati, o non lo abbiamo mai saputo, al passaggio di millennio l’aspettativa di vita degli abitanti di molti paesi sotto l’Equatore era crollata di oltre 15 anni. Una malattia fuori controllo che colpiva neonati, giovani e soprattutto donne.
Vent’anni fa, dopo una coraggiosa conferenza che si tenne a Durban in Sudafrica (e di cui Vella fu uno dei promotori) il mondo cominciò a muoversi e a guardare finalmente anche a Sud e nel 2001, nei giorni del drammatico G8 di Genova, nacque il Global Fund, il Fondo Globale per la lotta all’Aids, la tubercolosi e la malaria, che in questo tempo ha salvato 44 milioni di vite.  

A questa storia fatta di dolore, paura, discriminazione, ma anche di generosità, mobilitazione e ricerca ho dedicato una serie podcast in quattro puntate che ho scritto con la giornalista Silvia Nucini e si intitola: Un filo rosso. Realizzata in collaborazione con il Global Fund, è un lungo reportage che ci ha portato a intervistare quattordici testimoni di questi quarant’anni di storia, a raccogliere storie e ricordi di una pandemia che non si è mai conclusa.

Stefano Vella, ritratto su un giornale locale Sudafricano, alla XIII Conferenza Internazionale sull’Aids che si tenuta a Durban dal 9 al 14 luglio del 2000

Tra le voci che abbiamo raccolto e che usciranno nelle prossime quattro settimane ce n’è una che mi ha particolarmente colpito, è quella di Rosaria Iardino, perché ci racconta di quanto forte fosse lo stigma e la marginalizzazione di sieropositivi e malati di Aids e cosa fu necessario per rompere il muro di cattiva informazione e pregiudizi. 

«Ho scoperto di avere l’HIV quando avevo 19 anni. Dopo l’esito dell’esame andai a fare la visita dall’infettivologo, il quale mi diede più o meno un anno di vita. Era il 1985. Uscii da quel medico incredula, perché io stavo bene, ma decisi subito che, visto che avevo solo un anno di vita, almeno mi sarei divertita. Così mi trasferii a Londra».
A Londra Rosaria Iardino visse ogni giornata come fosse l’ultima ma cominciò anche a conoscere le organizzazioni attive nell’assistenza ai sieropositivi, tra cui il Terrence Higgins Trust, intitolata al primo britannico morto di Aids.
«Appena sono entrata in contatto col mondo della HIV mi sono resa conto di quante persone morivano continuamente, una dietro l’altra. Io però continuavo a stare bene. Dopo un anno decisi di ritornare in Italia e riprendere in mano la mia vita. L’Italia però era tutto un altro mondo: le persone con HIV venivano licenziate, discriminate e c’era la vergogna di usare il termine Aids. Ero giovane e anche un po’ incosciente e quando mi proposero di diventare vicepresidente del Circolo di Cultura Omosessuale Mario Mieli a Roma e di occuparmi proprio dei diritti delle persone con HIV, accettai subito. Nel frattempo, anche se pensavo di avere i mesi contati, cominciai a lavorare in un ristorante, ero una bravissima maîtrema quando il proprietario seppe che ero sieropositiva mi licenziò. Disse che avrei potuto contagiare i miei colleghi. Gli feci causa, vinsi, ma quello fu il mio ultimo lavoro in un settore privato fuori dalla sanità. A quel punto un gruppo di amiche, tra Milano e Roma, decisero di sostenermi, autotassandosi per darmi uno stipendio e chiedendomi di non rinunciare a questa battaglia. E allora da lì cominciai ad espormi sempre di più in televisione. Dopo molti anni, venni a sapere che i miei fratelli e le mie sorelle avevano subito discriminazioni e perso amicizie perché io andavo in televisione a parlare di sieropositività. Alla mensa i colleghi non si sedevano più accanto a loro». 

La foto che immortala il bacio tra Rosaria Iardino e Fernando Aiuti

È in quel periodo che Rosaria Iardino incontrò Fernando Aiuti, immunologo e presidente di Anlaids: «A un congresso mi propose di mettere su un gruppo di persone con HIV all’interno dell’associazione. Accettai, nonostante io e Fernando fossimo diversissimi e litigassimo in continuazione: lui era di centrodestra, io ero di centrosinistra. Ma insieme avevamo un ottimo gioco di squadra. Eravamo molto arrabbiati sulla disinformazione che c’era in quel periodo e andavamo in televisione a ripetere che una persona con HIV poteva trasmettere il virus solo se il proprio materiale biologico entrava in contatto col materiale biologico di un altro e che il mio sangue su una pelle integra non poteva trasmettere l’HIV. Il bere da un bicchiere di vetro che poi veniva lavato non poteva trasmettere l’HIV. E che si poteva fare sesso, bastava farlo protetto. Per questo ci sono state persone che hanno provato ad aggredirmi, che per strada mi hanno urlato che ero una schifosa che poteva infettare e la portinaia della casa dove abitavo ogni volta che scendevo lavava la scala con la varechina. Abbiamo avuto delle scale stupende…».

Poi, il primo dicembre 1991 esce su un quotidiano la notizia che basta un bacio per trasmettere il virus, Rosaria e Ferdinando sono a Cagliari ad un congresso: «Eravamo veramente arrabbiati, ma anche molto stanchi. E Fernando mi dice: “Ma secondo te cosa possiamo fare?” E ridendo entrambi rispondiamo: “L’unica roba sarebbe darsi un bacio”. Ricordo che lui scherzava sul fatto che comunque era sposato e io dicevo “Sì però capisci che io sono lesbica, baciare un maschio neanche figo come Brad Pitt, capisci che per me è un problema”. Parlavamo di entrambe le reputazioni che sarebbero state frantumate da questo bacio. Però era uno scherzo. Finché probabilmente sia dentro di me, sia dentro di lui questa idea ha cominciato a girare come una rotellina, sicuramente in maniera inconsapevole. La mattina dopo c’era il ministro della Sanità a Cagliari e allora ci siamo guardati e Fernando mi ha indicato un fotografo. Allora ci siamo guardati e abbiamo detto “O lo facciamo adesso o non lo facciamo mai più”. C’è stato un bacio sulle labbra e c’è stato un unico scatto. Solo il giorno dopo abbiamo capito il boom mediatico che avevamo scatenato. Un’amica che era in Giappone mi mandò un fax: “Ma che cacchio stai facendo?”».

Fernando Aiuti cavalcò lo scandalo e le polemiche, Rosaria Iardino invece scelse di tornare per un po’ nell’ombra: «Mi sono fermata perché era troppo anche per me. Avevo capito che alla mia morte sarei stata ricordata come la ragazza del bacio. Magari morirò a 82 anni e non sarò più ragazza, ma quello che ho fatto nella mia vita non conterà assolutamente nulla, mediaticamente conterà solo quel bacio, perché per le persone con HIV è stata una svolta epocale e ha fatto benissimo. E questo è il ricordo che io porto dentro».

Rosaria Iardino in una foto di oggi

Ferdinando Aiuti è scomparso il 9 gennaio del 2019. Rosaria Iardino invece ha 55 anni, una figlia di 9, è presidente della fondazione “The Bridge” che si occupa di politiche sanitarie, e sta bene. Ma la sua preoccupazione oggi è che i giovani non sanno più cosa sia l’Aids: «Hanno abbassato la guardia, non prendono precauzioni, non fanno più i test e i contagi tornano a salire». 
Nel mondo lo scorso anno un milione e mezzo di persone si sono infettate.

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