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16 Ottobre 2023

La storia dentro una foto

Ci sono fatti e pezzi di storia che esistono solo perché c’è una fotografia che li racconta. Un’immagine talmente forte da riuscire a muovere sensibilità e coscienze pubbliche e cambiare destini. Per molto tempo sono andato alla ricerca delle storie che ci sono dietro gli scatti più significativi e importanti, incontrando alcuni tra i maggiori fotografi del mondo. Ora ho ripreso questo viaggio ed è nata una nuova edizione di “A Occhi Aperti” dove racconto anche il percorso di due fotografe eccezionali: Susan Meiselas e Letizia Battaglia
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Cosa potremmo sapere, cosa potremmo immaginare, cosa potremmo ricordare di molti momenti che hanno fatto la storia se non ci fossero, impresse nei nostri occhi, le immagini che li raccontano? Un esempio perfetto di questo sono le foto dell’invasione sovietica di Praga del 1968 scattate da un «anonimo fotografo praghese», che si scoprì poi chiamarsi Josef Koudelka. Quanta giustizia hanno fatto quelle foto, capaci di raccontare al mondo la freschezza e l’idealismo di una primavera di libertà e la repressione dei soldati russi.

Ci sono fatti, pezzi di storia, che esistono solo perché c’è una fotografia che li racconta. Un’immagine talmente forte da riuscire a muovere sensibilità e coscienze pubbliche.

Le foto che Josef Koudelka scattò per testimoniare la repressione sovietica della “Primavera di Praga” rimasero anonime per anni, sul retro delle stampe nell’archivio di Magnum c’è un timbro con scritto: “Photograph by P.P”. “P.P.” significa fotografo praghese, poi solo nel 1984 – quando era uscito dalla Cecoslovacchia –  a penna, è stato aggiunto il nome. © Magnum/Contrasto

Continua a succedere anche oggi, nonostante siamo diventati tutti fotografi con il telefono in mano. Penso all’immagine di quel bambino siriano di tre anni, con i pantaloncini blu e la maglietta rossa, che giaceva sul bagnasciuga di una spiaggia turca, affogato mentre cercava di raggiungere l’Europa. Si chiamava Alan Kurdi, era il 2 settembre del 2015, e quella foto fu capace di mettere sotto gli occhi del mondo il dramma di chi scappava dalla guerra e convinse la cancelliera Angela Merkel ad aprire le porte della Germania ai profughi siriani. 

Penso a Sebastião Salgado che nel 1984 si presenta alla redazione del quotidiano francese «Libération» con i suoi scatti in bianco e nero che denunciano gli effetti della carestia in Sahel, un racconto sconvolgente nella sua forza, che obbliga l’Occidente a fermarsi e impone di non voltare la testa dall’altra parte. Salgado apre gli occhi al mondo e tornerà a farlo due anni dopo, rivelando l’immenso formicaio umano di una miniera d’oro a cielo aperto brasiliana, dove la vita e la fatica non hanno alcun valore. 

Queste foto, che hanno plasmato il nostro immaginario collettivo, mi hanno spinto negli anni ad andare a cercare i loro autori, per farmi raccontare il momento in cui hanno incontrato la Storia e hanno saputo riconoscerla. È stato un viaggio affascinante, non solo nella fotografia, ma negli avvenimenti che hanno costruito la memoria dell’ultimo mezzo secolo.

Ero partito con tre immagini negli occhi: una immensa terrazza coperta di detriti da cui si vede il panorama della Beirut distrutta alla fine della lunga guerra civile libanese; lo sguardo di un uomo nel momento in cui viene arrestato e vede svanire il suo sogno di attraversare il confine tra il Messico e gli Stati Uniti; un gruppo di donne indiane che si abbracciano in mezzo a una tempesta di sabbia. Volevo sapere dai tre autori di quelle foto – Gabriele Basilico, Alex Webb e Steve McCurry – cosa fosse successo un attimo prima e un attimo dopo il momento dello scatto, che cosa avevano pensato e se si fossero immediatamente resi conto della magia e della forza di quella fotografia. 

Questa foto è stata scattata da Alex Webb nel 1979 a San Ysidro, poco a sud di San Diego, sul confine tra gli Stati Uniti e il Messico. © Magnum/Contrasto

Ne era nato un libro che è qualcosa di diverso da un’indagine sulla fotografia, perché parla soprattutto di storie e di giornalismo, di quella che dovrebbe essere l’essenza del giornalismo: andare a vedere, capire e testimoniare

Avevo iniziato a scrivere quel libro, che racconta anni di incontri, nei cinque mesi del 2013 in cui Domenico Quirico, giornalista della Stampa, che allora dirigevo, era sequestrato in Siria. Giorni in cui non potevo non interrogarmi continuamente sul senso del mio mestiere e in cui mi facevo forza con l’idea che il lavoro di un giornalista deve avere la determinazione e il coraggio di distinguersi da quello di un entomologo: non possiamo accontentarci – per ragioni di opportunità, comodità o sicurezza – di osservare la vita del mondo dall’alto, come si farebbe con un formicaio, aiutati magari da un’ottima lente. 

Un giornalista, e lo stesso vale per un fotografo, ha il dovere di vivere in mezzo alle formiche, di vedere il mondo dal loro punto di vista. Prima di partire, Domenico mi aveva ripetuto che non puoi scrivere di un bombardamento dal confine, attraverso i racconti dei fuggitivi, non lo puoi raccontare se non hai sentito il rumore delle esplosioni, se non hai passato la notte sveglio insieme a chi sta sperando di arrivare vivo all’alba, se non hai provato la stessa paura. È la convinzione che ha animato il lavoro di Don McCullin, di Paolo Pellegrin, di Letizia Battaglia, che si rifiutava di usare il teleobiettivo tanto da andare così vicina alle vittime di mafia da essersi portata l’odore della morte nel naso per tutta la vita. Quando Quirico tornò finalmente a casa, mi disse che in Siria di giornalisti non ne aveva quasi più incontrati, di fotografi invece molti: «Se ancora siamo sollecitati a capire cosa sta accadendo laggiù è grazie a loro». 

Il 6 gennaio 1980 mentre sta tornando a casa sulla sua Seicento, Letizia Battaglia vede un piccolo gruppo di persone accanto a un’auto su Viale della Libertà, si ferma pensando ci sia stato un’incidente. Nel momento in cui si avvicina vede un corpo che viene estratto con delicatezza da un uomo che lo solleva tra le braccia. Letizia scatta e fissa sulla pellicola un’immagine storica, anche se non ha ancora capito cosa sia successo. Capirà solo dopo che è stata la prima ad arrivare dove hanno appena sparato al presidente della Regione Piersanti Mattarella, il cui corpo è tra le braccia del fratello Sergio, futuro Presidente della Repubblica.
Nell’auto, mentre Letizia Battaglia fece la sua foto, c’erano ancora la moglie e la figlia di Piersanti Mattarella, che avevano assistito impotenti all’omicidio. © Archivio Battaglia 

Dieci anni dopo ho ripreso il cammino di questo libro e ho ritrovato le stesse emozioni entrando nello studio di Susan Meiselas a Little Italy a New York o ricostruendo il lavoro di Letizia Battaglia insieme ai suoi nipoti. Queste due fotografe si sono aggiunte ai dieci che componevano il volume pubblicato da Contrasto nel 2013. Il titolo è rimasto lo stesso – A Occhi Aperti – e tornerà in libreria per Mondadori martedì 31 ottobre, ma lo potete già ordinare sugli store online.

La fotografia che ho scelto per la copertina – scattata nel 1979 a San Ysidro in California – è la prima che ho comprato quando ho cominciato a lavorare. Sta con me da una vita ma, dopo tanti anni che la guardo ogni giorno, l’emozione che mi trasmette è ancora intatta. Ci vedo la storia che si ferma un attimo e con delicatezza ci racconta le battaglie del mondo.

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