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13 Novembre 2023

Il voto che cambia il mondo

Tra un anno ci saranno le elezioni presidenziali americane. E, nonostante i processi, Donald Trump è in cima ai sondaggi. Che cosa hanno in mente gli americani? E quanto ci influenzano ancora le loro scelte? L’ho chiesto a Marco Bardazzi che conosce e studia l’America. E che è appassionato di presidenti, forse addirittura più di me
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Avevo sei anni ed ero a cena dai miei nonni, mentre mangiavamo si guardava il telegiornale. Era novembre del 1976 e in televisione si vedeva una festa, c’erano tanti coriandoli e in mezzo un uomo che alzava le braccia. Ero rapito da quella scena. Mio nonno mi spiegò che era il nuovo presidente degli Stati Uniti, si chiamava Jimmy Carter. Gli chiesi se anche lui fosse contento, come quell’uomo, e il nonno mi rispose qualcosa che non ricordo, ma il senso era che non si trattava del nostro presidente, quella vittoria era una vicenda lontana. Quel giorno le elezioni americane entrarono nella mia testa e alle scuole medie cominciai a preparare delle cartelline con i ritagli di giornale di tutti i candidati alle elezioni presidenziali. Sognavo di andare a vederle dal vivo e finalmente, nel 2008, sono riuscito a seguire tutta la corsa che ha portato Barack Obama alla Casa Bianca. 

Oggi abbiamo la sensazione che la cosa ci riguardi molto di più e il mondo ogni quattro anni tifa per uno o l’altro candidato.

A Chicago il 4 novembre 2008, la notte dell’elezione di Barack Obama  (©Ramak Fazel) 

Alle prossime elezioni manca un anno, ma il clima è già caldo e i sondaggi dicono che Donald Trump è in vantaggio su Joe Biden in molti Stati chiave. E che se si votasse oggi tornerebbe alla Casa Bianca. Trump ci crede e prepara il suo secondo mandato, nonostante sia inseguito dai processi. Guardo i sondaggi e mi chiedo come possa essere possibile, cosa stia passando nella testa degli americani.

Ogni volta che mi faccio queste domande alzo il telefono e chiamo Marco Bardazzi. È un giornalista, abbiamo lavorato insieme all’agenzia Ansa e ci siamo conosciuti a Tunisi, fuori dalla cattedrale, durante i funerali di Bettino Craxi. Durante la campagna elettorale del 2008 era il corrispondente dell’Ansa da Washington. Ci incontravamo ad ogni comizio o nelle notti elettorali, e la cosa che mi colpì di lui è che sapeva sempre tutto: delle regole, dei precedenti storici, delle vite dei candidati e dei dati di ogni sondaggio. Quando avevo un dubbio lo chiamavo o andavo a trovarlo al National Press Building, il palazzone della stampa poco lontano dalla Casa Bianca.Con Marco poi ho lavorato alla Stampa e ancora oggi è il mio termometro sull’America, perché continua a studiarla con passione. All’America ha dedicato un libro appena uscito, intitolato “Rapsodia Americana”, ispirato alla “Rapsodia in blu” composta un secolo fa (nel 1924) da George Gershwin.

Io e Marco Bardazzi a La Stampa

«Biden – mi spiega Marco – ha il problema di non aver ancora convinto gli americani che quando andranno a votare staranno meglio di quattro anni fa. È questa la domanda chiave, l’unica che si pongono tutti: “Sto meglio oggi o 4 anni fa?”. E oggi, a giudicare dai sondaggi, gli americani rispondono di stare peggio. In questo giudizio c’entra poco la politica estera, ma anche qui la sensazione degli americani è che con Trump il mondo fosse più tranquillo. C’è la percezione che Putin e Hamas abbiano attaccato perché gli Stati Uniti non sono più rispettati e la colpa viene attribuita al presidente che è fuggito in modo disordinato dall’Afghanistan. Il sentimento più diffuso lo potremmo riassumere così: “Non vedo perché io, che non riesco a pagare il mutuo e non faccio più il pieno con gli stessi soldi, debba pagare per difendere l’Ucraina”. La guerra più dura per Biden è quella all’inflazione».

Guardo ai numeri e vedo che, durante la sua amministrazione, sono stati creati 14 milioni di posti di lavoro, la disoccupazione (al 3,8 per cento) è la più bassa da 54 anni e il Pil salirà del 2,2. Ma non basta, perché c’è l’inflazione e la benzina costa il cinquanta per cento in più. E questo per molti è sufficiente a bocciare Biden e riprendersi Trump.

Oltre all’economia, l’altro fattore che preoccupa è l’età: Biden sta per compiere 81 anni e, se fosse rieletto, finirebbe il secondo mandato a 86 (l’età che ha oggi Papa Francesco). «Questo tema si ritrova in un dato sorprendente dei sondaggi: Biden è in svantaggio tra i giovani, anche afroamericani e ispanici che sono stati la base della vittoria di Obama ma oggi starebbero spostandosi verso i repubblicani».

Le inchieste che coinvolgono Trump non sembrano aver toccato l’elettorato, anche se vanno avanti veloci: «Lui sta usando ogni accusa come una medaglia, come la prova che il sistema lo perseguita, ma i processi giocheranno una parte importante nel voto del prossimo anno. Il più pericoloso per Donald Trump è quello che si terrà in Georgia: dove è accusato di aver fatto pressioni indebite per convincere i vertici dello Stato, repubblicani, a non ratificare il risultato del voto favorevole a Biden. Già cinque dei suoi coimputati sono passati a collaborare con la giustizia. Quello in Georgia, poi, è un processo statale. Nei processi federali non possono entrare le televisioni, tanto che si ricorre ai disegnatori, ma in quelli statali invece ci sono le telecamere. È possibile che le udienze comincino a marzo e vadano in onda in diretta durante tutta la campagna elettorale».

Se penso all’uso spregiudicato e quasi propagandistico che Trump ha fatto della sua foto segnaletica, c’è da chiedersi cosa potrà fare in tribunale un animale televisivo come lui.

Il tweet con cui Donald Trump ha utilizzato la sua foto segnaletica in chiave propagandistica

Nel suo libro, Marco racconta un secolo di vita americana per mostrarci come ci siano battaglie culturali e politiche che si combattono sempre sulle stesse linee di frattura: «Ho preso il proibizionismo come punto di partenza: il Paese si era diviso tra “bagnati” e “asciutti” (Wet e Dry). Le due coste e le grandi città erano tutte a favore degli alcolici mentre le comunità rurali, il sud e provincia erano contrari, perché vedevano nel bere un segno di perdizione contrario al volere di Dio. Motore del movimento proibizionista erano le donne dei movimenti cristiani integralisti. Nel 1920 passò un emendamento alla Costituzione che vietò l’alcol e venne cancellato solo nel 1933, durante la Grande Depressione».

Le stesse linee di frattura, culturali e geografiche, si ritrovano nella battaglia sul diritto di aborto: «Anche questo è un tema costituzionale: la Corte Suprema nel 1973 aveva interpretato la Costituzione garantendo il diritto all’aborto, ma nel giugno del 2022 una corte a maggioranza conservatrice ha cambiato l’interpretazione restituendo il potere di decisione ai singoli Stati».

Ora la nuova frontiera di scontro sono i diritti LGBTQIA+, soprattutto i temi legati alla disforia di genere: «I repubblicani ne hanno fatto il nuovo campo di battaglia, dopo che molti Stati guidati dai democratici hanno stabilito che un minorenne possa rivolgersi all’autorità per ottenere il permesso al cambio di genere anche senza coinvolgimento delle famiglie. Le famiglie americane oggi sono in maggioranza favorevoli ai matrimoni gay, ma sul cambio di sesso si è riacceso lo scontro».

Il libro di Marco Bardazzi Rapsodia Americana, edito da Rizzoli

Chiedo a Marco dove abbia colto nei suoi viaggi lo spirito americano: «Moltissimo andando lontano da New York e Washington, incontrando vite e famiglie che stanno sotto il radar dei grandi media. Parlando con i militari, che sono un vero termometro sociale, e seguendo gli sport. Le maturazioni sono lente e il razzismo è ancora forte, ma a New York non te ne accorgi, le grandi città sono lontanissime dall’America profonda. Ho capito il razzismo guardando il football, che è il vero sport americano, più di baseball e basket. È stato più facile avere un presidente nero che un quarterback nero. Il quarterback è il super atleta, il regista, la mente della squadra e per gli americani deve essere bianco, è così fin dai tempi della scuola. Quest’anno, per la prima volta nella storia, alla finale del Superbowl c’erano due quarterback neri e ha vinto Patrick Mahomes dei Kansas City. Lui, come Obama, ha una mamma bianca e un papà nero ed è il nuovo simbolo dell’America, ha preso il posto di Tom Brady quintessenza del bianco californiano».

Oggi, in una fase storica di divisioni profonde e di scontri feroci, viene da chiedersi se l’America ce la farà a ritrovare un filo comune. In passato ci hanno pensato le tradizioni, l’idea che ci fossero sogni e aspirazioni comuni e che la bandiera significasse qualcosa per tutti, fosse simbolo di una società multietnica. Anche negli anni Settanta l’America era drammaticamente divisa, c’era stata la guerra del Vietnam, lo scandalo Watergate che aveva portato alle dimissioni del presidente americano Nixon e la crisi economica, ma le celebrazioni per i duecento anni della dichiarazione d’indipendenza, il momento simbolo della nascita della democrazia americana, che furono il 4 luglio 1976, furono capaci di riunificare il Paese. Il prossimo presidente sarà quello che festeggerà i 250 anni, ma c’è da chiedersi che spirito ci sarà.

Il filo che Marco Bardazzi ha scelto di seguire è quello delle note di George Gershwin: «Un figlio di immigrati russi capace di comporre una musica che tiene insieme tutto ciò che si respirava negli anni Venti: i nuovi americani arrivati dall’Europa, un momento eccezionale nell’innovazione e nella cultura. Gershwin trasforma i suoni di New York in musica e inserisce il jazz per fare un’opera che sia alla pari con la tradizione europea e sia simbolo dello spirito americano». 

La prima esecuzione di Rhapsody in Blue si tenne il 12 febbraio 1924 alla Aeolian Hall di New York. Al pianoforte c’era lo stesso George Gershwin, che l’aveva composta in poche settimane. In platea c’erano grandi protagonisti della musica americana e internazionale, tra cui Sergej Rachmaninov. Fu un successo e segnò la nascita del fenomeno Gershwin.

 Un fermo immagine del concerto di Leonard Bernstein durante l’esecuzione di “Rhapsody in Blue” con la New York Philharmonic (potete vederlo e ascoltarlo qui). 
In occasione del centenario del suo componimento, domenica 11 febbraio 2024 al Conservatorio di Milano, nella Sala Verdi verrà eseguito un programma di musiche di Gershwin, tra cui ovviamente la Rapsodia

«Io penso – mi racconta Marco – che quel sogno non sia completamente perduto: noi guardiamo sempre alla Cina, ma gli Stati Uniti sono ancora il motore del mondo, sono leader nei brevetti e guidano l’innovazione. Non c’è dubbio che la Storia si è spostata sul Pacifico, ma per me è ancora sulla sponda americana».

L’ultima domanda che faccio a Marco è se Biden potrebbe fare un passo indietro. «Stanno scadendo i tempi per la presentazione delle liste delle primarie e non vedo alternative pronte a scendere in campo. Non credo che si tirerà indietro: vuole finire il lavoro e pensa di essere in grado di farlo. Ma non ti dimenticare che manca un anno e in dodici mesi possono succedere un sacco di cose. Ricordati che anche Obama un anno prima della rielezione era indietro in tutti i sondaggi».

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