Il 7 marzo 2022 Nikita Zenkov aveva accompagnato sua moglie Oksana e i suoi bambini gemelli di 7 mesi al confine polacco. Lei raggiungeva sua madre in Italia, lui partiva per il fronte. Aveva un crocefisso al collo, una loro foto nella tasca della mimetica, la tasca all’altezza del cuore. «Mi proteggeranno», mi aveva detto.

Il 28 novembre un proiettile russo lo ha passato da parte a parte, distruggendogli la milza e lasciandogli nel corpo 7 schegge. «Quando ho visto uscire la pallottola ho capito che non sarei morto. La foto ha funzionato», racconta ora, mentre cammina fumando fuori dalla casa di Mushkativka. Dentro c’è Oksana che sta cercando di fare addormentare i bambini, meglio non fare rumore. Sono di nuovo tutti a casa, ma nessuno può esserne davvero felice.Nikita è arrivato i primi di gennaio, in congedo dopo due interventi chirurgici d’emergenza a cui, gli hanno preannunciato, ne dovranno seguire altri. Aspetta che il dottore gli dia l’autorizzazione a ripartire. Senza milza non può mangiare tutto e non può ancora sollevare grandi pesi, circostanze che ne fanno un soldato non idoneo alla prima linea, dove è stato fino ad ora. Queste limitazioni lo rendono nervoso e infelice: i suoi compagni di brigata – sono artiglieri – sono a Bakhmut. Li sente tutti i giorni, più volte al giorno. «Non ho dolore da nessuna parte, voglio andare», dice.

Racconta che questi due mesi coi bambini sono stati bellissimi: Oksana ogni giorno aveva parlato a David e Kira del papà, aveva mostrato le sue foto, organizzato videochiamate, non voleva se lo dimenticassero. E infatti non è successo. Il 5 agosto scorso hanno compiuto un anno, Nikita ha scoperto che il compleanno dei figli era motivo di licenza e così, solo per quel breve incontro, Oksana è partita dall’Italia e si sono rivisti tutti a casa. Dei cinque giorni di permesso, Nikita ne ha passati la metà in viaggio «ma ne è valsa la pena», ricorda. Quando lui è ripartito – con la macchina piena di cibo per i soldati, raccolto da tutti gli abitanti del paese – lei ha deciso di non rientrare in Italia: il fronte era abbastanza lontano da sentirsi al sicuro ma abbastanza vicino perché suo marito, qualche altra volta, potesse tornare. «Purtroppo ha potuto farlo solo per la pallottola», dice Oksana.
Ma adesso, nonostante la gioia di essersi ritrovati, e nonostante i suoi superiori gli avessero offerto di stare a casa e svolgere mansioni di reclutamento, Nikita vuole ripartire. «La sento anche io la felicità che mi danno mia moglie e i bambini, ma se rimanessi a casa non so che cosa potrebbe succedere alla mia testa. I miei amici stanno combattendo, io sono un militare, devo fare la mia parte». Nikita spiega così la decisione che Oksana ha fatto fatica a capire, ma che si è rassegnata ad accettare sapendo che vorrà dire altri mesi con il telefono perennemente in mano: magari chiama. E con sempre pronta una motivazione razionale a placare l’ansia: se non chiama è perché non c’è campo. Va detto che nell’idealità di Nikita c’è probabilmente anche un aspetto economico: un soldato in prima linea guadagna l’equivalente di 2500 euro al mese, uno nelle retrovie 800. Poco di più chi sta nel mezzo.

Il proseguimento del conflitto e i problemi di approvvigionamenti dei mesi scorsi hanno lasciato gli ucraini stanchi e anche tristi. La mamma di Oksana, Natalia, ha fatto i salti mortali per mandarle dall’Italia (in Ucraina erano introvabili) un generatore che coprisse le moltissime ore di blackout che ci sono state durante l’inverno. Ora va meglio, «La gente lavora, va al bar, cerca di vivere una vita normale», dice Nikita. Ma, aggiunge Natalia: «Sono tutti tristi, lo vedi dalle facce. Le facce di chi non riesce più a fare i programmi per il futuro».
«L’unico programma che possiamo fare è vincere questa guerra», dice Nikita. «Un anno fa ero ottimista, lo sono ancora. Aspettiamo che arrivino le armi, impariamo ad usarne e con la primavera e il terreno meno fangoso faremo una grande offensiva per riprenderci quello che è nostro. Noi combattiamo per riportare a casa tutte le nostre terre, per i confini del 1991: la Crimea, le repubbliche di Donetsk e Luhansk saranno di nuovo Ucraina». Poi aggiunge: «Quando vedi solo morte e distruzione devi avere un grande sogno per andare avanti».

Di compagni, per strada, ne ha persi un po’. «Non tantissimi, ma giovani: venti, ventun anni». L’età che aveva lui quando ha cominciato la carriera militare combattendo nel Donbass e quando ha scelto il suo nome di battaglia. Ancora adesso, al fronte, è «il Corvo». Nonostante quello che è successo mi dice che non ha paura. «Non ce l’ho, non l’ho mai avuta. So che stare in guerra mi espone al rischio di morire, sono stato colpito, potrei esserlo ancora, ma sono pronto».
Un cane in sottofondo non smette di abbaiare, Nikita butta la sigaretta, i bambini a quest’ora dormiranno. L’indomani, svegliandosi, vorranno uscire dai lettini e corrergli in braccio. In un anno di guerra succede anche che si impari a camminare.
*Silvia Nucini è giornalista e autrice. È stata per 18 anni caporedattrice storie di Vanity Fair. Ora le racconta in molti posti e in molte forme. È autrice di alcuni podcast tra cui il weekly Voce ai Libri prodotto da Chora Media