16 Dicembre 2022

Lo scrittore notturno

Gerlando Fabio Sorrentino vive e lavora a Pescara. Ogni giorno dalle 17 in poi sveste i suoi panni di vicedirettore di un boutique hotel nel centro della città e diventa scrittore. Dopo aver pubblicato un libro sull’antica Roma è in attesa di trovare un editore per una storia ambientata durante la Seconda guerra mondiale. La giornalista Valeria Palermi lo ha incontrato e racconta la sua storia
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«Smetto di ripetere “La colazione è servita dalle 7 alle 11” e comincio a scrivere. Tutti i giorni, dalle 17 alle 21». Si lascia alle spalle la reception, Fabio, le ore a occuparsi di arrivi, partenze, fatture, suggerimenti di itinerari e ristoranti in inglese, tedesco, spagnolo e francese. «Non erano cose a cui aspiravo, però sono fortunato a lavorare in un albergo. Ma appena sono libero dai miei impegni cambio pelle e prospettiva». La sera scrive di Teodosio e dei primi spasmi dell’Impero Romano d’Occidente. Del Vescovo di Milano Ambrogio e della strage di Tessalonica. Di due famiglie senatorie romane, i Simmachi e i Nicomachi, e di una comunità misteriosa, Eurotheis, che intendeva proteggere i culti pagani dalla minaccia del cristianesimo. Sul telefonino ha salvato la Lettera a Francesco Vettori di Niccolò Machiavelli: “Venuta la sera, mi ritorno a casa e entro nel mio scrittoio; e in sull’uscio mi spoglio quella veste cotidiana, piena di fango e di loto, e mi metto panni reali e curiali”. «Mi ci rispecchio».

Gerlando Fabio Sorrentino (© Gerlando Fabio Sorrentino)

Gerlando Fabio Sorrentino, siciliano, 54 anni, è un uomo gentile dai modi premurosi, anche quando non è all’ingresso del piccolo curatissimo albergo di Pescara in cui lavora dal 2010. Un boutique hotel, solo 23 camere a un passo da quella che sarebbe Piazza della Rinascita ma i pescaresi chiamano Piazza Salotto. È il vicedirettore, ma in un albergo piccolo sui ruoli non si può essere troppo puntigliosi. «Faccio il caffè ai clienti quando non c’è il barista o a portare le valigie se serve». 

In hotel lo chiamano Fabio, ma è il secondo nome. Il primo è Gerlando, omaggio al Vescovo guerriero patrono di Agrigento, dov’è nato. Dalla Sicilia manca da anni, ma le radici le sente forti. È lì che ha cominciato ad amare i libri.

«Sono cresciuto tra Porto Empedocle, Agrigento e Lampedusa. La casa di nonno guardava verso il pino sotto cui riposavano le ceneri di Pirandello, uno dei primi autori che ho amato. I miei leggevano tanto. La biblioteca di papà l’ho scoperta a 10 anni, dopo un trasloco, negli scatoloni finalmente i libri erano alla mia altezza. Il primo che ho comprato fu “Il Gattopardo”».

Un’educazione siciliana, che pare nutrirlo a ogni passo di storie. La stessa sua è una piccola storia italiana che vale la pena raccontare

«Mio padre faceva il doganiere a Lampedusa, noi che venivamo dalla Sicilia eravamo “quelli della terraferma”. C’era una base militare americana, lì vidi per la prima volta un asiatico e un nero. Poi si spostarono a Gela e qui il racconto è intriso di catrame, cotone e bellezza femminile. «Enrico Mattei ci aveva voluto la raffineria dell’Anic: portò sviluppo e rovina. L’inquinamento era spaventoso, tornavamo a casa dal mare coi piedi sporchi di catrame. Il turismo ne fu devastato, però tanti trovarono lavoro a Gela e arrivavano da tutta Italia. Si creò mescolanza, anche di cromosomi, Gela era un tripudio di splendore femminile: bionde, rosse, more, me le ricordo tutte belle». Ricorda anche il cotone, coltivato fino a pochi decenni fa: «Da bambino vedevo i campi di batuffoli bianchi. Poi coltivarlo smise di essere redditizio». Altro diventava ben più proficuo. «Arrivò la Stidda, nuova mafia di ragazzi che spacciavano droga, nessun codice d’onore, sanguinari anche con donne, bambini, vecchi. Intervenne lo Stato: militari di leva controllavano il territorio, mitra spianati, posti di blocco, servizi di guardia davanti a case di magistrati. Ricordo un’irruzione in una casa. La donna, uccisa davanti al televisore, era a terra in una pozza di sangue. Io e un mio amico ci intrufolammo insieme ai poliziotti e prima che ci cacciassero riuscimmo a vedere che l’apparecchio ancora trasmetteva lo sceneggiato “La Piovra”». 

Per allontanarsi andò a studiare Lingue a Catania, ma c’era il problema del servizio militare: «Simpatizzavo per i radicali, mi affascinava Marco Taradash che aveva rifiutato il servizio militare». Lo fece anche lui: “obiettore totale” per protesta contro la mancanza in quegli anni di un Servizio Civile realmente tale. Venne condannato da un Tribunale Militare. «Si veniva puniti con un anno di reclusione a Gaeta, Peschiera o Forte Boccea, ma ebbi fortuna: era stata introdotta la riforma del codice di procedura penale e con questa gli sconti di pena. Invece di 12 mesi ne scontai 4, di cui uno e mezzo in prigione, gli altri in impieghi di pubblica utilità. Nel carcere di Palermo guardie e prigionieri giuravano che le vecchie fortezze erano infestate da spiriti, indumenti volavano, porte mai aperte sbattevano…». Quando lo mandano ad Aragona è felice: custode in una biblioteca comunale («Il paradiso»), poi l’ufficio Anagrafe a ricostruire alberi genealogici per chi voleva arruolarsi nei Carabinieri o in Polizia. Bisognava risalire di cinque generazioni per dimostrare che non c’erano in famiglia precedenti penali. «Scavavo nel tempo, scoprivo l’anagrafe dei vivi e dei morti. Un allenamento alla ricerca che mi è stato prezioso per scrivere».

Scontata la pena tornò a studiare, ma a Roma, e trovò lavoro in un hotel. Lì ha imparato un mestiere, e ancor di più a osservare gli uomini. «In albergo sei sempre a contatto con l’umanità. C’è chi viene per lavoro, chi per vacanza, chi per tutti quei letti. L’hotel ai Parioli era appartato, con un ingresso laterale. Le camere che cominciavano col 5 erano speciali, kitsch, con lo specchio sopra il letto. Il direttore chiamava i loro ospiti “Codice 5”: le davamo a coppiette più o meno clandestine. Poi c’erano i commessi viaggiatori che mi chiedevano “le coperte”, e io, i primi tempi, gli facevo portare in camera coperte di lana dalla governante. Un giorno un commesso mi richiamò: “Guardi non intendevo quel tipo di coperta…” rimasi sbalordito, ero un provinciale del sud, non avvezzo a consuetudini metropolitane». Scopre un mondo: sul Messaggero mettono inserzioni entraineuses attrezzate a trattare con clientela internazionale. «Una concluse la transazione davanti a me: già allora aveva la macchinetta portatile per l’impronta delle carte di credito».

L’isola di Lampedusa vista dall’alto, uno dei luoghi d’infanzia di Gerlando Fabio Sorrentino (Wikipedia, Luca Siragusa, CC BY 2.0)

Impara i segreti dell’hotellerie e a scrivere. Le storie gli arrivano direttamente alla reception. La gente si confida senza pensarci troppo, col portiere o col barman. «Una volta, mi ero già trasferito in Abruzzo, arrivò da me un sindacalista. Mi portò uno scartafaccio di fogli scritti a penna e chiese di batterli al computer. Pensavo fossero cose di lavoro, invece era una lunghissima lettera per sua moglie, piena di acrimonia. Le scriveva che gli aveva reso la vita impossibile, che gli aveva messo contro il figlio, lui voleva perciò il divorzio e rifarsi una vita con un’altra. Mi chiese solo, “Capisce la mia scrittura?”, Certo, lo rassicurai. Bastò». 

Il primo romanzo, nel 2009, lo presenta al Salone di Torino. Si intitolava “Luna Fritta”, l’idea era nata da una foto scattata il giorno in cui gli americani sbarcarono in Sicilia: una loro nave fu centrata da una bomba tedesca, i marinai morirono quasi tutti – il relitto c’è ancora. «Cominciavano gli sbarchi degli immigrati clandestini nel Mediterraneo, annegavano a migliaia, e a me venne in mente una storia che metteva insieme americani e nordafricani: un barcone si rovescia dove 50 anni prima era affondata la nave americana. Prodigiosamente, l’anima di due marinai americani intrappolati nella nave si reincarna nei corpi di due nordafricani. E compiono quello che non gli era riuscito anni prima: sbarcare in Europa». 

Va al Salone, una provocazione in mente: presentarsi ammanettato per attirare attenzione sul dramma dei migranti. «Non sapevo come procurarmi le manette, all’epoca non c’era Amazon. Andai in un sexy shop. Il proprietario mi chiese se le volevo con un ciuffo di peli rosa o viola, “Vanno bene semplici”, risposi. Andai con le manette, sul giubbotto mi appiccicai una stella di David e una mezza luna araba. Non mi si filò nessuno».

Non si scoraggia, Fabio, che peraltro è Gerlando, in onore del Vescovo guerriero. Lavora sulla scrittura, impara a cercare fonti e documenti, ma la voglia di misurarsi con la storia di Roma e di scrivere il suo libro finora più ambizioso, “Le ultime voci”, nascono su YouTube, grazie a Federico Zeri. «Era Natale 2018, vidi “Agonia e fine della Roma antica”, sua conferenza sulla fine dell’Impero, dedicata al quarto secolo dopo Cristo, al periodo successivo all’emanazione degli editti di Teodosio, che aveva messo al bando i culti antichi. Due famiglie senatoriali patrizie, gli Zeri, i Simmachi e i Nicomachi, temevano che i cristiani con la loro furia iconoclasta avrebbero annichilito le testimonianze della cultura pagana. Crearono così “scrittoria”, dove si ricopiavano opere greche e latine per preservarle». 

Il video gli ispirò un’ipotesi fantastica: che sia esistita su un’isola delle Baleari una comunità dedita al culto pagano e depositaria di antichi saperi che, di fronte alla minaccia barbarica e cristiana, si prefigge di rubare dalla Biblioteca di Alessandria quanti più manoscritti possibili per portarli al sicuro sull’isola, in previsione di una fuga oltre le Colonne d’Ercole. 

La sua pagina Facebook avverte che “Le ultime voci” è opera di fantasia, lo stesso accadrà col libro appena concluso, “La benda al cuore”, ambientato durante la Seconda guerra mondiale e incentrato sulla controversa figura del maresciallo Ugo Cavallero. «Mi ci sono imbattuto studiando l’8 settembre. Fu Capo di stato maggiore generale dell’esercito italiano dal ’40 al ’43, dopo Mussolini l’uomo più potente d’Italia. Dalle molte sfaccettature: capitano d’industria per Pirelli e Ansaldo, laureato in matematica, fluente in inglese e tedesco, grande organizzatore della logistica dell’esercito. Galeazzo Ciano lo odiava: lo riteneva un approfittatore. Cavallero, per i suoi passi falsi, alla fine fu deposto da Mussolini. Badoglio, nemico giurato, lo fece imprigionare a Forte Boccea, i tedeschi lo liberarono. Albert Kesselring gli propose di diventare capo delle forze armate dell’esercito repubblichino ma lui, sabaudo, era fedele prima che al duce al monarca. Che però era fuggito da Roma portandosi dietro Badoglio… Cavallero fu ritrovato morto la mattina del 14 settembre in un albergo a Frascati, dov’era anche il comando di Kesselring. Si parlò di suicidio, ma il colpo di pistola lo aveva preso alla tempia destra e lui era mancino… Mussolini ironizzò, Cavallero era stato “suicidato con la mano destra di Kesselring”.

Il libro è finito e sta cercando un editore ma è convinto che il momento sia favorevole visto che l’anno prossimo ricorrerà l’ottantesimo anniversario dell’8 settembre. «Molti però chiedono soldi per valutare: per 720mila caratteri più di 900 euro. Ma sono tranquillo: per pubblicare “Le ultime voci” c’è voluto un anno, sarà lo stesso per Cavallero. Il libro ha potenziale, per l’anniversario e perché le vicende belliche ci riguardano di nuovo da vicino. 

A me non interessa diventare famoso, solo dar testimonianza di una visione del mondo. La letteratura, ha scritto Pavese, è una difesa contro le offese della vita».

* Valeria Palermi, giornalista, è stata per 13 anni all’Espresso, per sei ha diretto D di Repubblica. Oggi vive tra Asia ed Europa, collabora con alcuni quotidiani italiani e progetta iniziative editoriali.

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