15 Aprile 2021

Tra nebbia, terra e vite

Nel suo ultimo libro Pianura, edito da Einaudi, lo scrittore e saggista Marco Belpoliti descrive e racconta la Pianura Padana. Ad Altre/Storie ha consegnato un vademecum utile per addentrarsi e viaggiare in questi luoghi dove, complice nebbia, lo spazio e il tempo sembrano cancellarsi
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Non è facile in Italia guardarsi intorno e non vedere niente, non il profilo di una montagna, una striscia d’azzurro che sappia di mare, o l’apparenza di una leggera onda verde come una collina. Quel posto è la pianura padana. Marco Belpoliti, scrittore e saggista, uno dei maggiori studiosi di Primo Levi, nato a Reggio Emilia, residente da molti anni a Milano, viaggiatore per forza e per amore attraverso quegli spazi senza ripari, ha raccolto visioni, memorie, esperienze, personaggi in un libro inevitabilmente intitolato “Pianura” (Einaudi). E tutto comincia con questa confessione: “Amo la terra piatta, quella in cui l’orizzonte non è chiuso da nulla se non dalle nuvole, laggiù, e il cielo è un fondale che si curva sulle nostre teste: in alto sopra e anche dietro. Non so perché sia così. Forse perché la terra piatta mi fa sentire più al sicuro”.  
Gli abbiamo chiesto un vademecum minimo per un viaggio, ne è uscito un piccolo catalogo per l’uso dei sensi e la misura dell’anima. Cos’è che fa la pianura? 

Pioppo

Senza i pioppi la pianura sarebbe nuda, somiglierebbe a un deserto dove al posto della sabbia c’è l’erba. Si dice che il suo nome derivi da populus, ovvero “albero del popolo”, e qualcuno sostiene che ci fosse anticamente a Roma un boschetto di pioppi in quella che è oggi Piazza del Popolo. In realtà il pioppo è sceso dal Nord del mondo in epoche molte lontane e ha attecchito perfettamente nei terreni umidi della Pianura padana. Lo si coltiva per usare il suo legno, ad esempio per fare la carta, ma anche per realizzare dei pannelli. È  flessibile e ha bisogno di luce, come gli abitanti della pianura. La cosa più bella è vederlo ondeggiare leggermente quando soffia la brezza da queste parti. Le sue fronde non stormiscono, ma emettono un leggero fruscio. Una volta gli aruspici traevano vaticini da quelle fronde, dal loro ondeggiamento. A un certo punto della vita mio padre voleva comperarsi un pioppeto per trarre vantaggi economici dalla sua crescita e poi vendita. Per fortuna non se ne fece niente. Avrei dovuto occuparmene io. Meglio guardare i pioppi degli altri che esserne proprietari. 

Nebbia

Senza nebbia che cosa sarebbe la Pianura? Sarebbe come una casa senza la facciata. La nebbia è la materia prima della pianura. Serve per perdersi dentro e per ritrovarsi. La nebbia ri-vela, nel senso che vela due volte, come dice l’etimo della parola: ci fa vedere meglio le cose perché ci aiuta a immaginarle, e quando si alza guardiamo con altri occhi il mondo intorno a noi. Se scomparirà a causa dei cambiamenti climatici resteremo un poco nudi: senza faccia.

Fiume

Senza il fiume che cosa sarebbe questa terra piatta? Non esisterebbe neppure. Forse sarebbe un fondo valle, uno sprofondo, che invece il fiume ha riempito in milioni di anni trascinando la terra e la ghiaia che scende copiosa delle antiche montagne che la circondano: le Alpi da un lato, e gli Appennino dall’altro. Una pianura alluvionale la nostra. Dove esiste al mondo un altro luogo così? Il fiume si chiama Po. Uno dei nomi di fiumi più corti del mondo. Una sillaba sola. Da bambino pensavo che venisse da “poco” e che si scrivesse così: Po’. Poi ho saputo che il suo nome viene da padus, temine latino, per contrazione e che si può anche scrivere con l’accento Pò. Ma per noi è senza accento e senza apostrofo. Il fiume più femminile del mondo. Lo avete mai visto dall’alto?

Il fiume Secchia che scorre lungo una parte della Pianura Padana visto dalla Ciclovia del Sole

Aceto

Senza l’aceto cosa sarebbe l’insalata? Vi siete mai chiesti perché l’aceto è nato qui? Forse non tutto l’aceto di vino, ma di certo quello balsamico è un frutto speciale della Pianura, del suo clima e dei suoi umori: nasce dall’humus. È un balsamo buono per tutto: tosse, asma, morso dei serpenti, doglie; credo che possa curare anche la depressione. Del resto, per gustare quello eccellente ci vuole un cucchiaino perché scende a gocce: è prezioso (un po’ come le gocce dei farmaci che curano gli stati ansiosi e depressivi). L’aceto è una sferzata di vita, e quello balsamico una golosità. Una volta assaggiato sull’insalata, non si riesce più a farne a meno.

Sole

Senza il sole che cos’è la Pianura? Un regno uggioso ma seducente. Con la pioggia e il vento, con le nubi scure all’orizzonte, la pianura è uno spazio immenso. Con il sole splendente può essere un forno, un luogo riscaldato e riarso – la pianura è un deserto con l’umidità. Qui d’estate l’aria si taglia a fette, come il Parmigiano-reggiano. La calura con il frinire delle cicale è il mood di questa terra che cova se stessa nella piattezza e nell’estensione a perdita d’occhio.

Magone Nel dialetto di Reggio Emilia è magon. Poi già a Villa Cella, pochi chilometri fuori città, si pronuncia in altro modo. Tutti però dicono la stessa cosa: una afflizione, una forma di depressione che comporta un dolore fisico, oltre che morale. Si fissa in alto, appena sotto il collo, in quella zona in c’è la bocca dello stomaco. Sarebbe un dispiacere che con il passare del tempo non si riesce a mandare più via; ti affligge la mattina appena alzato e la sera prima di addormentarti. Perché di giorno il magone, che è un nodo alla gola, sembra svanire, dato che si deve lavorare. Gli emiliani afflitti dal magone sono dei grandi lavoratori. Si lavora per necessità e per destino, ma anche per dimenticare i tanti piccoli dolori della vita, quelli che non serve raccontare allo psicoanalista perché tanto non ci si può fare niente: appartengono all’essere al mondo, al fatto che il vicino ha tagliato gli alberi che si sporgono sul suo terreno, o che la suocera non tiene troppo in considerazione anche se nella famiglia allargata che lavora i campi tu sei il più forte e valente… A produrlo sono i dolori dei tanti piccoli e tradimenti che la vita ti assegna, perché venire al mondo da queste parti ti destina al magone senza alcuna possibilità di fuga. Fato padano.


*Cesare Martinetti (Torino, 1954), giornalista dal 1976: “Gazzetta del Popolo”, Ansa, “la Repubblica”. A “La Stampa” dal 1986. Inviato, corrispondente da Mosca, Bruxelles e Parigi, vicedirettore. Due libri, “Il padrino di Mosca” (1995) e “L’autunno francese” (2007), entrambi editi da Feltrinelli.

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