Prima immagine: una ricercatrice che ha dedicato la sua vita alla storia delle formazioni partigiane presenta un libro in cui affronta i luoghi comuni più diffusi sulla Resistenza. È stata invitata dalla sezione locale dell’ANPI. Fuori, uno schieramento di polizia e carabinieri garantisce che la serata si svolga con tranquillità. Una comunità neonazista attiva nella zona ha attaccato tre striscioni di contestazione. Azzate, provincia di Varese, 12 novembre 2021.
Seconda immagine: due giorni prima a Torino muore una donna che per tutta la vita si è dedicata a far funzionare l’Istituto piemontese per la storia della resistenza Giorgio Agosti. Si chiamava Dada Vicari e ha coltivato la memoria di quelli che si sono battuti e sono caduti per la libertà, come suo padre Michele, ferroviere, partigiano, fucilato il 18 aprile 1945, il giorno dello sciopero generale di Torino, ad appena una settimana dalla liberazione dal nazifascismo.
A legare le due immagini, i fantasmi che tornano mentre un pezzo prezioso di memoria ci lascia, è Chiara Colombini, 48 anni, autrice del libro Anche i partigiani però…
È lei che ha avuto bisogno della scorta di polizia e carabinieri per presentare il suo volume, che è proprio dedicato a Michele e Dada Vicari. «Anch’io lavoro all’Agosti, dove sono raccolte tutte le carte delle formazioni partigiane del Piemonte, e Dada mi aveva adottato, era una persona di grande umanità e teneva sotto la sua ala tutti i giovani che passavano dall’Istituto».
Chiara è stata in provincia di Varese per un piccolo giro di presentazioni; le avevano detto che ci sarebbero potuti essere problemi, ricordando la dura contestazione che due anni prima un nutrito gruppo di neofascisti fece contro lo scrittore Francesco Filippi, autore di Mussolini ha fatto anche cose buone, un altro libro sul dilagare di luoghi comuni e chiacchiericcio che in tempi di disinteresse, ignoranza e ritorni di fiamma vengono presentati come verità storiche.
«Mi avevano avvisato, ma voglio sottolineare che è stata una tre giorni deliziosa, con sale piene e belle discussioni, ma lascia perplessi che per presentare un libro ci voglia la polizia e questo mi sembra un segnale non proprio rasserenante. Non per me, anzi lo striscione che mi riguarda non l’ho considerato insultante e nemmeno minaccioso. Ma lo sai cosa c’era scritto, usando una rima banale? “Chiara Colombini, mangia bambini”. Mi viene da ridere. La mia preoccupazione è invece legata alla situazione più generale, al fatto che un gruppo neonazista riesca a condizionare le attività culturali di una zona e richieda la mobilitazione delle forze dell’ordine settantasei anni dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale».
Quando ho letto la notizia, in un trafiletto nei giornali locali e in una comunicazione dell’Istituto Ferruccio Parri, del cui comitato scientifico Chiara fa parte, avevo appena finito di trascrivere la mia conversazione con Javier Cercas (qui trovate il podcast) e mi risuonava in testa la sua frase contro “la dittatura del presente”, quel modo di vivere immersi in ciò che accade nell’istante, dimenticando ciò che è successo soltanto una settimana prima: «Il passato di cui esiste ancora memoria e testimonianza non ne è passato, ma fa parte del presente, se ce ne dimentichiamo viviamo un tempo mutilato».
Ho cercato Chiara Colombini perché mi sembrava che la sua vicenda e quello che mi aveva detto Cercas si parlassero, volevo capire il suo lavoro e grazie a quale scintilla fosse nata la passione per la Resistenza: «È accaduto leggendo Fenoglio. Io sono nata ad Alba e quei luoghi delle Langhe mi sono familiari, ma i suoi libri mi hanno lasciato soprattutto la voglia di conoscere i protagonisti oltre il romanzo e così ho incontrato la figura di Nuto Revelli che mi ha spalancato un mondo. Mi ha fatto capire la complessità e le difficoltà di una scelta come quella partigiana nell’estate del 1943. Revelli era un militare di carriera, un ufficiale degli Alpini ed era andato volontario in Russia. Non era stato antifascista nel ventennio, ma era tornato con ferite umane profondissime e con una voglia di ribellione fortissima. Diventò un capo partigiano leggendario, ma con grande onestà intellettuale ha sempre ricordato la difficoltà di quella scelta. Io studiavo filosofia ma leggere i suoi ricordi mi ha fatto nascere la domanda fondamentale: io che cosa avrei fatto?».
E così la vita di Chiara ha preso la sua direzione che l’ha spinta oggi a confrontarsi con i luoghi comuni che si sono fatti sempre più spazio negli ultimi venticinque anni, ha scelto di fare un libro divulgativo, con un titolo provocatorio, non per storici, ma per tutti.
«Oggi il discorso contrario alla resistenza è radicatissimo, ha trovato la sua capacità di saltare il fosso della memoria neofascista e di diventare di più ampia diffusione all’inizio degli Anni Novanta, con la fine della Guerra Fredda e della Prima Repubblica. In questa nuova fase si è fatta strada l’idea che l’antifascismo e la Resistenza non potessero più essere il punto di legittimazione della Repubblica e oggi viviamo immersi in un clima che dà pessimi segnali. Se sia fascismo o no, quello che torna non lo so, ma quello che colgo è un clima che non mi piace. Non nasce dalla denigrazione della Resistenza ma è qualcosa di più complesso, è come se si fossero rotti gli argini e così, ora, è possibile fare affermazioni e dire cose che non si sarebbero mai immaginate. Penso ai discorsi razzisti prima di tutto».
Così Chiara è ripartita da lontano e nel suo libro in ogni capitolo affronta una delle accuse mosse ai partigiani, una delle semplificazioni utili a sporcare e denigrare: “Erano tutti rossi”, “Inutili e vigliacchi”, “La violenza è colpa loro”, “Rubagalline”, “Assassini”.
«Nel confrontarmi con i luoghi comuni non cercavo delle giustificazioni e nemmeno di santificare i partigiani, ma volevo raccontare una storia fatta da esseri umani, che ovviamente non erano perfetti e avevano insieme contraddizioni, slanci meravigliosi e limiti. Quello che io amo ricordare è che ci sono state persone che nel momento più nero della disperazione di una guerra di occupazione, dopo vent’anni di dittatura, abbiano trovato un motivo per reagire e il coraggio di salire in montagna».
Leggendo il libro di Chiara Colombini e parlando con lei ci si rende conto che tutto il revisionismo, le accuse e i famosi luoghi comuni partono da un dato falsato: si dimentica che c’erano i nazisti, si dimenticano le atrocità della guerra. «Questo è l’elemento fondamentale dei giudizi liquidatori: l’azzeramento del contesto storico e il tentativo di giudicare il passato con il metro dell’oggi. Se non si capisce quale era la situazione, allora la scelta armata è inconcepibile».
Per ripartire davvero dall’inizio, come fa quando incontra i ragazzi delle scuole, è necessario rispondere alla domanda su chi fossero i partigiani: «Erano persone molto diverse tra loro, per provenienza sociale, politica, geografica e con idee spesso opposte sul presente e sul futuro, ma che in un momento di grandissima precarietà e incertezza, in un momento in cui la sopraffazione era legge, hanno reagito. Certo sono stati una piccola minoranza i partigiani in armi, ma più grande era l’area che li sosteneva. Una larga parte era rappresentata dai più giovani, c’erano anche trentenni e quarantenni con una formazione politica alle spalle, già antifascisti o che lo erano diventati nel corso della guerra ma soprattutto tanti ragazzi, nati e cresciuti sotto il fascismo e senza un’idea politica ben precisa. Uno degli aspetti che mi affascina di più è questa natura composita così ricca. E non erano tutti comunisti. Certo la risposta al luogo comune non deve portare a sminuire il ruolo delle Brigate Garibaldi, che erano la metà dei combattenti, ma è scorretto stabilire un rapporto organico tra formazioni partigiane e partiti politici».
Ogni storia ha un luogo di elezione, un punto in cui le cose sembrano avere un senso più nitido e vero, per Chiara quel luogo è la Cascina Langa narrata da Fenoglio nel Partigiano Johnny, si trova a 700 metri d’altezza tra i paesi di Benevello e Trezzo Tinella, da qui si apre un panorama mozzafiato su tutta la pianura e sulla corona delle Alpi. Per il partigiano Johnny quella cascina solitaria era un rifugio, il luogo degli amici e della cagna lupa.
Anch’io, quando un giorno ci sono arrivato, portato da Angelo Gaja che voleva farmi capire l’essenza dell’Alta Langa, mi sono innamorato di quel luogo e ho riletto lo scrittore che imparai ad amare all’università per quella sua lingua asciutta ed essenziale che definisce alla perfezione ogni cosa.