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21 Febbraio 2020

“Mi chiamo Fame
farò mangiare l’Africa”

Questa è la storia di un bambino africano con molte vite. Abbandonato dalla madre quando ha tre anni - il padre se ne era già andato con un’altra donna – cresce, poverissimo, coi fratelli maggiori in un villaggio del Kenya. Il più grande lo porta a vivere con sé in una baracca di Nairobi, ma è un incubo perché il fratello lo riempie di botte. Decide di fuggire e si unisce a una banda di ragazzini che vive in una discarica: mangiano rifiuti e sniffano colla.
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Questa è la storia di un bambino africano con molte vite. Abbandonato dalla madre quando ha tre anni – il padre se ne era già andato con un’altra donna – cresce, poverissimo, coi fratelli maggiori in un villaggio del Kenya.

Duncan Portrait
Duncan Okech, ritratto di Marta Signori.

Il più grande lo porta a vivere con sé in una baracca di Nairobi, ma è un incubo perché il fratello lo riempie di botte. Decide di fuggire e si unisce a una banda di ragazzini che vive in una discarica: mangiano rifiuti e sniffano colla. Un giorno dei suoi nove anni, in un parco della baraccopoli, conosce Moses e sua moglie Sylvia che distribuiscono ai bambini come lui scodelle di ghiteri, un piatto di mais e fagioli. Moses gli offre anche un letto in orfanotrofio e lezioni alla sua scuola sotto l’albero.

Questo bambino è diventato un uomo, ha 26 anni, e ha scritto un libro che esce oggi e si intitola: “Tieni il tuo sogno seduto accanto a te”.

Si chiama Duncan, di secondo nome Okoth che significa pioggia perché lui è nato in un giorno in cui diluviava, e di cognome Okech, che vuol dire fame. Vive in Italia e non c’è arrivato con un barcone, ma in aereo con un visto e una borsa di studio. Si è laureato il 19 settembre dell’anno scorso e ha un solo sogno che coltiva ogni giorno: tornare in Kenya per aprire una piccola azienda.

Per ora lavora in una cooperativa agricola in Sicilia, a Camporeale, dove mette in pratica tutto quello che ha imparato sulla trasformazione del cibo per preparare succhi, salse, sughi e creme. Gli serve per imparare come si gestisce un laboratorio, intanto risparmia e ha scritto il progetto per produrre a Nairobi passata di pomodoro, marmellate e fare il pesto alla ligure. Mi racconta tutto al telefono, parla un perfetto inglese e un italiano forbito, imparato sui libri. «In Italia avete il problema dello spreco di cibo, da noi invece il problema è che il cibo in tavola non arriva. Non siamo capaci di trasformare e conservare, così la nostra frutta, il nostro cacao e il nostro caffè o finiscono nei container e lasciano l’Africa, oppure marciscono. Qui in Italia sono diventato un food-tecnologo e con questa specializzazione sono convinto di poter fare la differenza. Sono ottimista, sto cercando finanziamenti per riuscire a costruire qualcosa che stia in piedi e conto di tornare prima dell’estate».

La storia di Duncan ci permette di guardare dentro l’Africa in modo chiaro e asciutto, liberi per una volta dai dibattiti sull’immigrazione illegale, le navi delle Ong, la sicurezza e i centri di accoglienza. Nessuno è fuggito, nessuno è da rimpatriare. Ma molto è da capire.

«La mia vita è cambiata tante volte. Ho imparato a ricominciare. Alcuni inizi sono stati orribili, altri solamente difficili. Iniziare è sempre difficile. Ho imparato anche che voltarsi a guardare indietro non serve». Per lui la memoria è pericolosa: «A che serve ricordare il dolore? Le botte, gli abusi, l’abbandono, la fame. Solo il presente è importante, l’unica cosa che conta. La memoria ti rende triste e debole».

Ma c’è un ricordo che si tiene stretto: il giorno in cui Moses gli affida l’orto dell’orfanotrofio. All’inizio non è contento, pensa che sia un passo indietro: proprio quando può studiare si ritrova a curare le piante come al villaggio da cui era scappato. A regalargli una prospettiva diversa ci pensa Eugenio, un italiano giovane ma con i capelli bianchi, che insieme ad Alessandra è arrivato all’orfanotrofio per adottare una bambina. Si ferma per sette mesi e con Duncan diventano amici, perché questo bianco è curioso e non lo guarda con pietà o commiserazione. Ma anzi gli parla per ore dell’orto, gli racconta che è una cosa preziosa, che può diventare un lavoro, un modo per vivere. Poi lo porta a vedere gli orti del villaggio di Baringo, sostenuti da Slow Food, e gli racconta che ha studiato in un posto che si chiama Pollenzo, all’università di Scienze alimentari.

Duncan va all’internet point della baraccopoli per vedere il sito dell’università, scopre subito che non ha nemmeno uno dei documenti richiesti per provare a iscriversi e per chiedere una borsa di studio. Eugenio lo aiuta ma falliscono. Riprova l’anno dopo, seguendo il consiglio del suo amico Juma, che conosce la ricetta per le cose impossibili: «Basta che lo decidi: quando decidi una cosa, il peggio è passato. Non devi più pensarci. Devi solo concentrarti».

La tenacia di Duncan e quella di Eugenio vincono. Arriva nella campagna piemontese, scoprirà la neve, il vino, cibi di cui non conosce l’esistenza (anche la carne cruda, a cui non si abituerà mai), imparerà l’italiano e prenderà la laurea.

Adesso, dopo quattro anni, pensa solo al ritorno: «Cosa mi mancherà dell’Italia? Il Natale, uno soprattutto, quello che mi ha fatto far pace con i ricordi delle feste mai avute. Quel Natale ha il sapore dei ravioli, o come le chiamano in Piemonte delle raviole di carne che fa Chiara, la sorella di Carlin, ovvero di Carlo Petrini. Lui ha questo vizio di invitare a pranzo il 25 dicembre tutti quelli che non tornano a casa. È stato lui, quando gli ho parlato per la prima volta della mia idea di fare il pesto a Nairobi, a dirmi: «Per ora devi studiare, ma tieni sempre il tuo sogno seduto accanto a te».

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