In questi giorni di angoscia continua, in questo tempo in cui la guerra è tornata un tema di cronaca e pensare ad altro è difficile, mi è capitato tra le mani un piccolo libro che mi ha aiutato ad aggiornare lo sguardo con cui leggere il nostro Paese. Si intitola “Domani è oggi” e lo ha scritto Francesco Billari, professore di demografia, che con coraggio ci dice che se alzassimo gli occhi da questo stato di emergenza permanente in cui viviamo, ci renderemmo conto che oggi la nostra vita è molto più lunga e sicura che in passato e che siamo troppo prigionieri delle nostalgie.
Prendiamo un dato soltanto: la vita media degli italiani un secolo fa (censimento 1922) era di cinquant’anni. Oggi è di 80,5 anni per gli uomini e 85 per le donne. «Non ci accorgiamo dei progressi che avvengono lentamente, eppure negli ultimi cento anni ogni giorno la speranza di vita è aumentata di circa 8 ore. È sorprendente – sottolinea Billari – eppure tendiamo sempre a pensare che il passato sia meglio, soprattutto perché guardiamo con nostalgia alla nostra gioventù».
Il nostro dibattito pubblico e politico insegue ogni ora il tema del giorno e questo ci impedisce di guardare lontano: non riusciamo a immaginare il futuro e così non lo costruiamo. Nel suo libro Billari, che è anche rettore dell’Università Bocconi, sottolinea che l’Italia deve fare una grande scommessa: quella sui giovani. Siamo uno dei Paesi più vecchi del mondo e il futuro lo costruiamo solo se investiamo nella scuola, se portiamo più studenti possibile fino all’università e se aiutiamo i giovani a non restare a casa fino a trent’anni. Per farlo bisogna rompere qualche mito, come quello delle scuole d’eccellenza e della necessità di bocciare.
Appena ho finito di leggere il libro l’ho cercato e gli ho chiesto di discuterne. La mia intervista la potete ascoltare nella nuova puntata del podcast Altre/Storie.
Uno dei temi che Billari sottolinea nel suo libro è che il domani non lo si costruisce domani, ma oggi: i problemi che avremo tra vent’anni si devono affrontare ed eventualmente risolvere o correggere adesso. In Italia abbiamo un dato formidabile di longevità ma essendo combinato con una bassa natalità siamo il Paese più vecchio del mondo dopo il Giappone. «Per questo dobbiamo fare una grande scommessa sui bambini e sull’istruzione».
Partiamo dai dati che Billari elenca: in Italia quasi il 38 per cento degli uomini e il 33 delle donne non ha un diploma di scuola superiore (la media europea è 20 per cento); sono laureati meno del 30 per cento dei giovani tra 25 e 34 anni e siamo lontanissimi da Paesi come Francia e Spagna (50 per cento), Giappone o Irlanda (60 per cento), Canada o Corea del Sud (70); infine abbiamo il primato europeo dei giovani che non studiano e non lavorano.
Un quadro che reclama cambiamenti urgenti e un modo diverso di pensare: «Io sono portato a vedere l’eccellenza nel talento e il talento deve poter sbocciare indipendentemente dalle condizioni di partenza. La scuola italiana è ancora erede di una tradizione di cento anni fa, con un modello selettivo e elitario, ma non possiamo più permetterci una scuola dei pochi e dei migliori. Il sistema attuale non riesce ad essere inclusivo verso la maggioranza della popolazione».
I genitori di Francesco Billari hanno entrambi la quinta elementare, suo padre è arrivato a Milano dalla Calabria e ha fatto il sarto, la madre dalla Sicilia e faceva i modelli di carta delle pellicce. Hanno fatto immensi sacrifici per far studiare il figlio ma l’investimento nell’istruzione ha dato i suoi frutti: laureato alla Bocconi, Francesco ha poi insegnato e fatto ricerca a Oxford e al Max Planck Institute in Germania prima di tornare in Italia alla Bocconi. Quell’ascensore sociale che nel suo caso ha funzionato alla perfezione oggi sembra essersi inceppato, tanto che ad andare all’università sono prima di tutto i figli dei laureati.
Per questo, per restituire dinamismo al nostro Paese abbiamo bisogno di alzare drasticamente il numero dei laureati e dei diplomati. Bisogna avere il coraggio di cambiare e, secondo Billari, è necessario spostare più avanti il momento della scelta che oggi è richiesta a 13 anni, e pensare di portare tutti i ragazzi al diploma superiore anche mettendo in discussione un dogma come quello della bocciatura: «La bocciatura è un sistema che per noi pervade la vita scolastica. Se uno studente non è promosso in una o due materie, deve rifare anche tutte le altre. Questo mi pare, dal punto di vista dell’efficienza, uno spreco di talento evidente. Io sarei per eliminare la bocciatura e pensare a dei sistemi in cui responsabilizzare gli studenti ma anche gli insegnanti, per portare avanti tutti».
Ma anche quella universitaria deve essere un’esperienza diversa, totalizzante e capace di fare la differenza: «Negli anni abbiamo cercato di aprire facoltà ovunque e adesso le università telematiche cercano addirittura di portare le lezioni nelle camerette delle ragazze e dei ragazzi. Nelle università migliori al mondo invece si crea un fermento che deve essere vissuto in prima persona. Gli studenti devono vivere nell’università, devono poterla respirare, lasciando la casa dei genitori. Non a caso alcuni dei nostri studenti, ricordo la studentessa che si è accampata fuori dal Politecnico, hanno rivendicato questo diritto. Il nostro Paese è ora che prenda questa direzione e faccia investimenti perché ciò sia possibile».
Per capire il lungo periodo dobbiamo immaginare un orologio: la lancetta delle ore è la demografia, misura i cambiamenti storici, l’economia è la lancetta dei minuti e la politica e la lancetta dei secondi, che si agita molto. Se vogliamo pensare al mondo di domani dobbiamo concentrarci anche sulla lancetta delle ore, non solo sulle lancette veloci. «Non dobbiamo aspettare, ma renderci conto che la lancetta delle ore, seppur lentamente, va avanti. Fermiamoci e pensiamo in grande, per non trovarci ad avere rimpianti. Per farlo è importante osservare ciò che fanno gli altri Paesi piuttosto che guardare sempre a noi stessi. Dobbiamo mettere in discussione l’intero sistema e fare riforme urgenti. Oggi inoltre abbiamo i nuovi italiani, quindi è importante sapere che l’inclusione di chi è arrivato da altri Paesi e dei loro figli sarà centrale per l’Italia dei prossimi decenni».