Il pianto dei neonati che risuona nei sotterranei di un ospedale. Le sirene degli allarmi. Le esplosioni. Lo sferragliare di un treno, carico di bambini, di donne, anziani e gatti, che sta portando il mondo stipato nei suoi vagoni un po’ più lontano dai missili a dalle colonne dei carri armati russi. E la voce di una giovane giornalista che racconta le vite delle persone, che dorme con loro dentro un bunker o in una chiesa, che raccoglie le loro storie, che mangia un uovo sodo per colazione e viaggia con uno zaino di provviste per l’emergenza. Una narrazione lontana che arriva ogni sera.
Cecilia Sala ha 27 anni e sta dimostrando che esistono nuove forme di giornalismo, capaci di parlare a tutti e capaci di farsi ascoltare anche dalle generazioni che hanno perso l’abitudine di comprare i quotidiani. Un giornalismo che ti porta nelle cose, che attraverso la voce ti permette di immergerti nelle situazioni.
Cecilia Sala è la prima “inviata podcast” che io conosca, questo significa che non è in Ucraina per un giornale, una televisione o una radio, ma per fare un racconto audio quotidiano, una storia che contiene interviste, spiegazioni, voci, suoni, rumori e che può durare tra gli 8 e i 15 minuti.
Un racconto che si chiama “Stories” e che si può ascoltare gratuitamente su tutte le piattaforme audio. Un racconto che è comprensibile a tutti, perché ha la voglia, la curiosità e il piacere di spiegare le cose, senza dare nulla per scontato, e che viene ascoltato ogni sera da più di 100mila persone.
Cecilia ogni mattina ci manda la sua posizione su WhatsApp e durante il giorno una serie di vocali che servono a costruire la puntata che esce ogni pomeriggio alle 18. Ieri mattina mi ha raccontato della bambina che sul treno abbracciava un orso di peluche più grande di lei. «Quando l’ho vista ho pensato a quella famiglia costretta ad abbandonare la propria casa per paura dei missili russi, ho immaginato la discussione su cosa fosse indispensabile portare via, i ricordi più preziosi, gli oggetti davvero necessari e poco ingombranti. Ho immaginato che la madre abbia detto alla figlia che non poteva portare quel maxi pupazzo sul treno, nella loro fuga senza meta. Ma visto il risultato la risposta della bambina deve essere stata: “Io senza il mio orso non parto”».
Il treno con cui Cecilia ha lasciato Kiev era diretto a Leopoli, la grande città dell’Ovest da cui si prova poi a passare in Polonia, i vagoni erano pieni all’inverosimile: «Nessuno chiede più il biglietto, a bordo ci sono solo famiglie composte di madri, figlie, bambini piccoli e nonni. I padri e i figli maschi non sono autorizzati a fuggire e devono restare a combattere. Il colpo d’occhio è molto strano perché gli unici uomini presenti sono africani o asiatici, sono studenti o lavoratori che erano arrivati dall’India, dal Pakistan o dalle più disparate parti dell’Africa e che in Ucraina avevano trovato un futuro. Cercano di uscire dai confini per tornare a casa, sono decine di migliaia, un esodo di dimensioni impressionanti. Ogni famiglia ucraina ha con sé un animale domestico, ci sono gatti, cani e conigli, nessuno è partito abbandonandoli. Anche loro sembrano comprendere la drammaticità del momento, nessuno abbaia o miagola. C’è molto silenzio, le ragazzine ascoltano la musica in cuffia».
Anche una settimana fa, nel viaggio d’andata, Cecilia era arrivata a Kiev in treno, ma in quell’occasione era notte e il vagone completamente deserto. Erano davvero in pochi ad andare verso la capitale, la grande fuga, in senso inverso, era già cominciata. All’alba aveva camminato per la città completamente vuota per il coprifuoco e aveva trovato posto in un albergo dotato di bunker. Le avevano spiegato subito che ci sarebbe stata solo la colazione (un uovo sodo e un caffè) e la cena, niente pranzo perché era scattato il razionamento. In queste notti, scandite dalle esplosioni e dal suono degli allarmi, gli ospiti dell’albergo sono diminuiti costantemente, fino a rimanere quattro soltanto. Allora le hanno comunicato che avrebbero chiuso. A quel punto ha capito che era il momento di uscire da Kiev, prima che quella colonna di carri russi, lunga 60 chilometri e ferma a 30 dalla capitale, circondasse la città e iniziasse l’assedio. Così, dopo aver cercato un autobus senza riuscirci, è tornata in quella bolgia che è la stazione. È scesa a metà strada tra Kiev e Leopoli, a Chmel’nyc’kyj, ma non ha trovato nessun posto dove dormire, finché, insieme a molti altri, è stata accolta in una chiesa, che aveva aperto le sue porte e trasformato le sue navate in un dormitorio. La scorsa notte erano in quaranta sotto il grande crocefisso.
La forza e il successo dei racconti quotidiani di Cecilia stanno nella loro diretta e sincera narrazione, non ci sono allarmismi, iperboli, drammatizzazioni, ma la potenza dell’immersione della vita quotidiana della gente. «L’audio è meno invasivo del video, le persone si dimenticano subito del microfono e si confidano, raccontano, ti aprono le porte delle loro vite. Il podcast mi permette il lusso di avere un tempo lungo di narrazione, che posso riempire con tante voci e dettagli e così chi ascolta ha la sensazione di essere lì con me. Ieri ho raccontato che fa un gran freddo, che suonano continuamente le sirene, che non trovavo dove dormire e che avevo paura. La mia paura e quella degli altri sono sentimenti che non diresti mai davanti a una telecamera. Invece il podcast ti permette una spontaneità e un’intimità completamente diverse».
Così, la settimana prima dell’invasione russa, Cecilia Sala ha raccontato la vita di una maestra d’asilo che la mattina stava con i bambini e il pomeriggio si addestrava a combattere e a difendere il suo Paese. Ha raccontato dei genitori che temendo il peggio volevano cucire sui grembiulini il gruppo sanguigno dei loro figli. Oggi continua ogni giorno a restituirci la sofferenza e l’incredulità della gente comune, scendendo nei sotterranei di un ospedale pieni di neonati che piangono o facendo parlare i ragazzi che raccolgono bottiglie e benzina per preparare le molotov con cui pensano di opporsi ai tank di Putin.
È anche restituendo l’umanità e la fragilità delle persone che si rende più evidente l’assurdità e l’orrore di una guerra.