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4 Maggio 2020

Come una gondola fuori dall’acqua

All’inizio della quarantena, ho deciso di affiancare una newsletter speciale del martedì a quella consueta del venerdì. L’ho fatto perché c’era urgenza di raccontare ciò che stava succedendo, ma anche per colmare - a mio modo - la distanza tra le persone e il tempo vuoto che si erano creati. E quello di oggi sarà l’ultimo speciale coronavirus. Non perché l’epidemia sia finita o ci siano meno storie, ma per dare una soluzione di continuità, un segno di speranza. La speranza che l’allentamento delle misure restrittive e il graduale ritorno al lavoro siano il primo passo di un nuovo cammino. La newsletter arriverà ogni venerdì e ci saranno altri speciali, lo prometto! Ma per chiudere questa serie sono stato a Venezia, una città svuotata, ancor più bella e malinconica, che in queste settimane ha perso la sua principale fonte di ricchezza: il turismo. Lo testimoniano i canali deserti e le gondole ferme. Come ci spiega l’ultimo artigiano rimasto a costruirle
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L’unico rumore è quello dei remi nell’acqua, due donne spingono una grande barca in legno carica di cassette di frutta, verdura, uova e pane. Le portano a casa di chi è in quarantena e non può uscire. L’acqua del Rio Novo, che collega la stazione al Canal Grande e di solito è l’autostrada dei taxi-boat, ora è immobile e le ragazze di “Row Venice” vogano con decisione. Sono le uniche padrone dei canali. Da più di un mese hanno trasformato le loro tre batele a coa de gambero, barche tradizionali di legno con cui insegnano la voga alla veneta a curiosi e turisti, in un servizio alla comunità. Nel silenzio, le campane suonano le ore e hanno ricominciato a scandire i ritmi della giornata. Venezia è bellissima. Venezia è terribilmente vuota. Venezia è tornata a essere solo dei veneziani.

Venezia, 29 aprile 2020. Le ragazze di “Row Venice” (onlus per la promozione della voga alla veneta) trasportano generi alimentari sulle loro barche per consegnarli a domicilio a chi non può uscire

«L’unica cosa bella di questo tempo tragico è ritrovarsi, vedersi, salutarsi, non capitava più da tanto tempo, impossibile riconoscersi in mezzo alla folla dei turisti. Da 40 anni non ci vedevamo più». Cinquantaduemila abitanti confusi in mezzo ai 25 milioni di turisti che passano ogni anno. Ma oggi i turisti sono scomparsi e, quando chiedo a Lorenzo Della Toffola, detto “Il vichingo”, di spiegarmi la situazione, lui mi mostra le mani: «Per la prima volta sono pulite, non c’è più traccia di vernice e di lavoro; questo per me è il più grande sintomo di malessere». Da due mesi le mani di Lorenzo non si sporcano perché da due mesi le gondole di Venezia sono immobili, congelate nei loro stazi, e nessuno si mette in fila per salirci.

Le mani di Lorenzo Della Toffola di nuovo al lavoro nel suo laboratorio artigianale, lo Squero di San Trovaso: qui sta rifacendo il fondo di una gondola

Mentre tutta Europa discute e decide calendari di riapertura graduale per ristoranti, bar, negozi e musei, c’è una sola città che non può rimettersi in moto: senza turisti, l’economia di Venezia non esiste. Quel fiume di persone che arrivava ogni giorno con treni, aerei, navi, pullman, è completamente prosciugato. Venezia soffriva quando ad arrivare erano in centomila al giorno, un numero insopportabile, ma oggi soffre a vedere che quel numero è diventato zero.

«Quella che mi fa più tristezza è la Riva del Vin, si chiama così perché c’era il mercato storico e ci scaricavano le damigiane di vino, che è piena di ristorantini. È tutto chiuso e nessuno riesce a immaginare quando si riaprirà». Elisabetta Ferrari accompagna i visitatori da più di 30 anni, ha una cultura sconfinata, ogni angolo della Laguna per lei è una storia da raccontare. «L’acqua è trasparente perché non ci sono le barche a motore. Sono tornate quelle a remi, c’è molta poesia in questo ma anche molta angoscia». Il sindaco Luigi Brugnaro continua a ripetere che il turismo un giorno tornerà, ma bisogna sostenere tutte le attività perché quel giorno siano in grado di riaprire e perché, nell’attesa, troppi non perdano una vita di lavoro.

Bar e locali chiusi nelle vie e nelle piazze di Venezia

Lorenzo Della Toffola guida lo Squero di San Trovaso, l’ultimo laboratorio artigianale rimasto a Venezia dove si costruiscono e si restaurano gondole. I documenti dicono che questa casa-bottega tutta in legno è qui da prima del Seicento. I maestri d’ascia, quelli che trasformavano gli alberi in barche, venivano tutti dal Cadore e costruivano le loro abitazioni nell’unico stile che conoscevano, quello di montagna. «In questi mesi, di solito si lavora giorno e notte per rifare il fondo, ridipingere e perfezionare ogni barca. Ma tutti i 433 gondolieri di Venezia sono chiusi in casa, non riescono nemmeno a immaginare quando potranno ricominciare».

Lo Squero di San Trovaso

Lorenzo, mentre accarezza l’intelaiatura di una gondola a cui stava lavorando all’inizio di marzo, prima di doversi arrendere, comincia a elencare quelli che sono perduti e sospesi: «Ho detto gondolieri, ma dovrei dire motoscafisti, cuochi, camerieri, commercianti, portieri d’albergo, facchini, negozianti, affittacamere, commessi, guide turistiche, artigiani. Penso al teatro, ai musei, alla Biennale, al cinema, ai cantieri. È stato un anno terribile: prima a casa per l’acqua alta, una cosa mai vista, adesso per il virus. Sono giù di morale. Non so cosa faremo».

Mentre parla, cerca di riprendere confidenza con quel luogo da cui è stato esiliato sette settimane fa. «Sono finalmente tornato dentro la mia officina, riapro con la speranza che qualcuno venga. Ogni due anni, ogni gondola va ridipinta tutta, ci vuole un mese. Una volta si faceva con la pece, oggi con gli smalti per il legno. Si danno dieci mani, tutte a pennello. Le gondole vivono in acqua e se stanno ferme si deteriorano di più. Normalmente sono bagnate di continuo dalle onde, quelle che fanno i motoscafi, le navi e i vaporetti; ora che l’acqua è ferma e non ha piovuto per due mesi, il legno si è seccato e le gondole sono tutte crepate o aperte. Inoltre, se non si muovono, si forma molta più alga sulla chiglia. Ci sarebbe tanto lavoro per il mio laboratorio, ma non so quanti gondolieri abbiano voglia di investire nella manutenzione della barca senza sapere quando torneranno i turisti. E temo che non li rivedremo prima di un anno».

Si guarda in giro, Lorenzo, e ripete ad alta voce la domanda che gli ho fatto: «Cosa farò adesso? Stavo costruendo una gondola, è quasi terminata, vorrà dire che ne metteremo su un’altra, sarà l’anno delle nuove barche».

Gondole ferme, ormeggiate nel Canal Grande; sullo sfondo, il Ponte di Rialto

Intanto che “Il vichingo” – il soprannome gliel’hanno dato perché è biondo, ha gli occhi azzurri ed è un po’ ruvido – stava in casa con le mani pulite a tormentarsi su cosa fare, Giovanni Pelizzato percorreva calli e ponti carico di libri. La sua libreria si chiama “la Toletta”, l’ha aperta il nonno nel 1933 e in famiglia si vantano di non aver mai chiuso nemmeno durante i mesi più duri della Seconda Guerra mondiale. Così, giovedì 12 marzo, quando è scattato l’ordine di chiudere tutto, lui è arrivato in negozio che non era ancora sorto il Sole, mancavano una decina di minuti alle sei e per non piangere ha preparato un cartello da mettere in vetrina: «Consegneremo i libri a domicilio tutti i giorni, domenica esclusa, tra le 13 e le 17, dopo aver raccolto le richieste dalle 9 alle 11».

«La mia mano era guidata dalla disperazione e dall’istinto – dice Giovanni – non avevo la minima idea se qualcuno avrebbe chiamato, se ci sarebbe stata la voglia di prendere in mano un libro. Invece ho cominciato a camminare senza sosta, anche 20 chilometri al giorno. Ho sempre consegnato in giornata, più veloce di Amazon, e, a 53 anni, ho scoperto un sacco di angoli di questa città che non conoscevo».

Le vetrine della libreria “la Toletta” di Giovanni Pelizzato

La sue camminate cariche di libri hanno salvato quasi il 20 per cento del fatturato, ma senza il restante 80 molti dipendenti rimarranno in cassa integrazione e il mutuo dovrà ancora essere posticipato. Ora si riapre, ma mancheranno i turisti e gli studenti della vicina Ca’ Foscari, chiusa come tutte le altre Università.

A dare la prima botta ci aveva pensato l’acqua alta del 12 novembre 2019: «Io sono un ansioso e, ogni volta che arriva un’allerta, sposto tutti i libri negli scaffali più alti, sopra il metro e settanta, perché la marea nel peggiore dei casi arriva a 150 centimetri. Invece l’acqua, questa volta, è arrivata a quota 187 e mi ha distrutto 3.800 libri». Anche nel racconto di Giovanni si mescolano «sconforto e respiro», perché la scommessa per il futuro è tenere le acque pulite e poter continuare a sentire i rumori dei remi senza che la città intorno muoia.

Un murales apparso in questi giorni a Venezia

Pensare che solo pochi mesi fa il dibattito era su come Venezia potesse vivere di turismo senza morire di turismo. «L’impatto di questi ultimi anni è stato troppo pesante, stavamo perdendo l’identità della città; oggi – ha il coraggio di dire Elisabetta Ferrari – è un momento di dramma ma anche un momento per riflettere. Questa è una città da capire, camminare, gustare, non è un luna park o un albergo diffuso».

Per comprendere il turismo mordi e fuggi basta guardare qualche numero: l’80 per cento dei visitatori non si ferma nemmeno una notte e Palazzo Ducale, il museo con più ingressi, stacca un milione e trecentomila biglietti l’anno. In questo luogo simbolo della città entra un turista ogni 25.

Stefano Croce, presidente dell’Associazione Guide turistiche di Venezia, uno che grazie agli stranieri vive, parla con grande chiarezza: «Arrivano questi gruppi immensi, 40 o 50 persone tutte insieme, che passano per poche ore, intasano le calli, fanno un selfie in piazza San Marco, mangiano per terra quello che prendono in un fast food, comprano due calamite e se ne vanno lasciando a Venezia solo spazzatura. Non è vero che tutto il turismo porta ricchezza. E il visitatore interessato, che vorrebbe conoscere e scoprire, scappa».

Ma a scappare sono soprattutto i veneziani, che non riescono più a vivere in una città in cui scompaiono i negozi e in cui il fenomeno Airbnb sta rendendo impossibile trovare una casa da affittare: «Le attività commerciali normali chiudono una dopo l’altra, è rimasto un solo negozio di scarpe da uomo in tutta la città. Per fare acquisti un veneziano deve andare sulla terraferma o comprare online. Ogni chiusura di un negozio storico corrisponde all’apertura di un fast food, che siano kebab, pizze al taglio o tramezzini. Le case si trasformano in bed and breakfast o vengono affittate su Airbnb, che oggi offre novemila appartamenti, cioè il 20 per cento circa dell’offerta abitativa. Per questo le giovani coppie o chi viene a lavorare non può più vivere a Venezia».

Dal Ponte dell’Accademia osservo il Canal Grande, nessuno lo naviga e nessuno lo attraversa, finché non appare la barca della Dhl: anche qui le consegne di Amazon sono diventate il primo negozio.

Il Canal Grande deserto, attraversato solo da una barca della compagnia di corrieri Dhl

Le proposte per cambiare sono molte, dai limiti da mettere al numero di case da destinare ad Airbnb fino a un sistema di prenotazione per le visite giornaliere: «In molti si sono interrogati e il punto cruciale è che il numero dei turisti sia compatibile con quello degli abitanti, ovvero tra le 50 e le 70 mila presenze al giorno». Oggi siamo a zero, un anno fa si arrivava a centomila. Il pericolo è che dopo la grande fame di turismo che affliggerà la città nei prossimi mesi si riparta accettando qualunque cosa, senza regole. Ma sarebbe il tramonto di Venezia. Una politica lungimirante dovrebbe avere la forza di costruire il cambiamento adesso.

Finalmente arriva un po’ di pioggia, fa bene alle gondole seccate dal Sole di questa quarantena; poi spunta un inaspettato arcobaleno sul Canal Grande. Mi sembra il miglior auspicio.

Venezia, 29 aprile 2020. L’arcobaleno sopra il Canal Grande

Come nasce una gondola

La chiacchierata su presente e futuro di Venezia con Lorenzo Della Toffola è quasi finita; mi sta raccontando che anche per lui “l’anno tragico” è cominciato con l’acqua alta che ha inondato lo Squero: «Ho perso tantissimo legname, ho trovato dei tronchi di larice nei luoghi più impensati della laguna. Avevo delle assi di olmo di cent’anni, le avevo rilevate da un vecchio artigiano che ha chiuso molto tempo fa, servivano per costruire l’ossatura delle gondole. Le ho perse tutte e, per colpa di un parassita, tavole così non esistono più». Prima di salutarmi aggiunge: «Normalmente non avrei avuto tutto questo tempo per parlare, ti avrei dedicato al massimo due minuti e poi sarei tornato alle mie barche». Allora decido di approfittarne e gli dico: «Visto che viviamo tempi eccezionali, raccontami come si costruisce una gondola e chi te lo ha insegnato».

Lorenzo Della Toffola dentro al suo Squero

«Io non vengo da una famiglia di costruttori di gondole – spiega Lorenzo – ma ho cominciato a giocare con i legni quando andavo alla scuola media, avrò avuto 13 anni e in giardino restauravo vecchie barche abbandonate. Ne avevo messa a posto una di tre metri e mezzo e la notte andavo a pescare. Poi la mattina mi addormentavo in classe. La laguna allora, verso la fine degli anni Settanta, era piena di pesce. Durante le superiori, a luglio, andavo a pescare con la rete le seppioline alla Diga degli Alberoni. Ne prendevo duecento chili a notte e, all’alba, al mercato del pesce andavano a ruba. Con una settimana di pesca mi pagavo le vacanze in Grecia.

Poi ho riparato barche per mestiere, ho passato l’esame da gondoliere, come mio fratello, e sono diventato sostituto, ma non mi piaceva. Sono un orso, non posso intrattenere i turisti. E poi devo lavorare con le mani. Così, quando 25 anni fa ho saputo che il vecchio proprietario di questo Squero andava in pensione e lasciava tutto perché non aveva eredi, sono venuto qui. Ero gondoliere e pescatore e la gente mi diceva: “Hai guadagni assicurati, ma sei pazzo a mollare per fare una fatica che non fa più nessuno? Perché?”. Mi sono risposto nel tempo: per amore della tradizione e perché fare le cose difficili mi dà una soddisfazione immensa.

A due persone devo tutto, una era Nedis Tramontin, l’ultimo grande maestro d’ascia che Venezia ha avuto. Mi aveva preso in amicizia e insegnato ogni segreto. Da secoli è tutto tramandato oralmente, non esistono piani di costruzione o progetti scritti e le misure sono tutte riportate in piede veneto, una tradizione che risale alla Repubblica di Venezia. La dimensione di una gondola è sempre la stessa, 11 metri scarsi di lunghezza per 1 metro e 42 di larghezza. Esiste un telaio che si chiama cantier, il mio ha più di cent’anni, ma tutto viene fatto a occhio.

Il telaio “cantier” su cui si costruisce la gondola

La struttura portante è di legno di rovere, un tipo di quercia, le traversine sono di ciliegio e il fondo dovrebbe essere di abete o larice, ma oggi si preferisce il compensato marino. Siamo rimasti solo noi a usare i diversi tipi di legname, le produzioni industriali usano il compensato marino per ogni parte. Ma è sempre più difficile, nessuno è più capace di tagliare delle tavole lunghe 11 metri e spesse un centimetro e mezzo. L’unico sta a Sillea, vicino a Treviso: pensa che smonta il laboratorio per tagliare l’asse da un tronco che dev’essere lungo oltre gli 11 metri. La barca nasce dritta, dopo la si mette rovesciata su due cavalletti; le travi laterali vengono bagnate, poi scaldate e così, con acqua e fuoco, si fa la curvatura. Ogni barca è personalizzata per il gondoliere ed è diversa a seconda dell’altezza e del peso di chi la porterà. Attenzione: è tutta inchiodata, niente colla.

La gondola che Lorenzo sta costruendo, quasi finita

Il gondoliere sta sulla sinistra e il remo sulla destra. La barca è asimmetrica, più larga sul lato sinistro, quindi tende a piegarsi sempre verso destra. Remando da quel lato il gondoliere compensa e la gondola procede dritta. Per fare una gondola interamente a mano servono almeno due mesi di lavoro senza sosta e il contributo di tanti artigiani. Forse quest’anno ne potrò fare più d’una. Intanto sto insegnando il mestiere a mio figlio Alberto, mentre mia figlia Francesca si occupa della contabilità e della burocrazia e questo è il regalo più bello, così io posso dedicarmi alle barche. Se un giorno tornerai, mi auguro di non avere tempo neanche per salutarti. Ma se ti presenterai con una bottiglia di vino, allora sì, due parole le potremo scambiare».

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