Ci sono storie mediche e scientifiche che vanno lette con gli occhi di un criminologo, perché le malattie e le epidemie possono essere figlie non solo dei virus ma anche dei traffici illeciti, del contrabbando e delle superstizioni. C’erano cose che venivano ripetute da anni: studiate, raccontate e spiegate. Non facevano notizia perché sembravano lontane e gli esiti erano così catastrofici da apparire fantascientifici. Queste cose erano il passaggio di un virus dalla specie animale a quella umana e gli esempi erano già sufficientemente dirompenti, pensiamo a Ebola o alla Sars. Le cause erano già state indagate e messe sotto gli occhi di tutti: la deforestazione, la distruzione di habitat naturali dove l’uomo era sempre stato assente, il consumo di carne di animali esotici.
A Wuhan la storia si è ripetuta, questa volta l’indice è stato puntato sul mercato della città, dove vendevano pesce ma anche animali vivi tra cui pipistrelli, serpenti e pangolini (dei piccoli formichieri con le squame) che venivano macellati all’atto dell’acquisto. Il pipistrello, secondo gli studi realizzati finora, è stato riconosciuto come il serbatoio naturale di quel coronavirus che sta paralizzando le nostre vite e il mondo. Si discute ancora se dai pipistrelli abbia raggiunto direttamente l’uomo o se sia passato prima attraverso i serpenti o i pangolini. Una certezza però le autorità cinesi ce l’hanno dall’inizio dell’anno: il luogo del salto del virus è in quei mercati di animali vivi e per questo li hanno messi al bando.
Ma non è la prima volta che accade, già 15 anni fa, dopo la Sars, il governo di Pechino aveva vietato la vendita e il consumo di 53 specie di animali selvatici tra cui la civetta delle palme (non è della famiglia degli uccelli rapaci ma un animale simile allo zibetto), allora considerata colpevole di aver trasmesso la malattia. Seguirono polemiche e proteste di venditori e consumatori e in breve tutto tornò come prima. E ora? La Cina ha imparato la lezione o tornerà a ripetere gli stessi errori?
Sono andato a chiederlo a un criminologo, che insegna all’Università di Oxford, perché questa storia la conosce bene e la studia da anni. Si chiama Federico Varese, è uno dei massimi esperti di mafie e sistemi criminali al mondo. Nato a Ferrara, ha studiato a Bologna, poi a Cambridge e a Oxford, la sua specializzazione è stata la mafia russa. Nel 2016 era a Macao, l’ex colonia portoghese oggi sotto amministrazione cinese, e la storia che mi ha raccontato è degna di un romanzo di John Le Carré, di cui Varese è amico e vicino di casa.
«Stavo facendo una ricerca sul sistema di trasferimento di denaro dalla Cina a Macao e a Hong Kong, sui meccanismi illegali di esportazione di capitali, che la criminalità usa per superare le durissime restrizioni cinesi all’uscita di valuta. Soldi che servono per essere riciclati, cambiati in valute straniere o giocati nei casinò di Macao. Ero insieme a Rebecca W.Y. Wong, una ricercatrice di Hong Kong che era stata mia allieva in Inghilterra. Avevamo individuato l’origine del traffico di denaro nel grande mercato cinese della città di Zhuhai, dove ci sono negozi fittizi che servono a mandare i soldi oltre frontiera nel giro di un’ora. Uno di questi banchieri illegali, dopo averci offerto i suoi servizi, ci aveva proposto quella che secondo lui era la migliore esperienza possibile: “Volete mangiare una scimmia per cena stasera?” Ci parlò di un ristorante fuori dalla città dove si potevano trovare tutti gli animali proibiti, gli risposi che non ci pensavo nemmeno lontanamente a mangiare quella scimmia, ma decidemmo di andare a vedere».
Il caso voleva che Rebecca Wong avesse fatto la sua tesi di dottorato a Oxford proprio sul commercio illegale di animali in Cina, su cui ha scritto anche un libro pubblicato lo scorso anno, in particolare sulle tigri e su come vengono usate nel mercato della medicina tradizionale. Un commercio illegale sostenuto da antiche credenze, la più radicata è che la zuppa del pene di tigre sia il rimedio perfetto per migliorare la capacità sessuale maschile.
Federico e Rebecca andarono a visitare il ristorante, scoprendo come era facile aggirare leggi e divieti. C’erano animali vivi nelle gabbie: bastava ordinare e andare a sedersi a tavola in attesa che l’esemplare che avevi scelto venisse ucciso e cucinato. Da lì i due cominciarono un viaggio nei “wet market”: «Vengono chiamati “mercati bagnati” perché hanno le vasche del pesce ma la loro specialità sono gli animali vivi che vengono macellati sul momento: polli, maiali, marmotte, pangolini, pipistrelli, zibetti, serpenti, tartarughe. Tutti quegli animali che vengono considerati una prelibatezza culinaria. Dopo il mercato di Zhuhai andammo nello Yunnan, vicino al confine con la Birmania, dove capimmo che accanto al consumo di carne c’è il mercato della medicina tradizionale, che va dalla tigre alla bile di orso fino alle scaglie dei pangolini. Tutto questo era già illegale, ma tollerato, e i mercati erano riforniti dai network criminali».
Solo a dicembre dello scorso anno, come racconta Varese in un articolo scritto per il “Project Syndicate”, le autorità doganali cinesi hanno sequestrato cento quintali di scaglie di pangolino da un solo gruppo di trafficanti illegali. A febbraio il Congresso del Partito comunista ha messo al bando il commercio e il consumo di animali vivi, un fenomeno endemico in tutto il Sud del Paese, ma non ha toccato la medicina tradizionale: «Adesso vendere e mangiare questi animali selvatici, che venivano tenuti vivi nei mercati, è illegale. Un passo fondamentale è stato fatto ma deve esserci accanto un cambio culturale. Senza una politica di persuasione di una fetta di consumatori cinesi, senza un radicale mutamento di costume sociale, tutto ciò continuerà nei mercati neri e nei ristoranti clandestini. Quello che ci può far sperare è quanto raccontano i sondaggi: la maggioranza dei cinesi è contraria. Soprattutto tra i giovani e tra gli influencer dei social media sta prendendo corpo una nuova sensibilità che rifiuta la tradizione e denuncia i trattamenti inumani nei confronti degli animali. Per un ragazzo di Pechino mangiare un serpente, una scimmia o un pipistrello è disgustoso. Loro sono la nostra speranza».
Non chiedere a Federico Varese come se la stanno passando le mafie in questo tempo di pandemia sarebbe un errore e lui non si fa pregare, ma ci tiene a sottolineare che anche tra i criminali c’è chi vince ma anche chi sta perdendo in questo momento: «Le mafie si muovono da un luogo all’altro del mondo e ora si trovano di fronte opportunità ma anche problemi. Partiamo dalle opportunità: mettere le mani sulla spesa sanitaria, dalle forniture all’emergenza, poi la possibilità di prestare denaro e soprattutto di acquisire le attività in crisi. Inoltre c’è il crimine informatico che mai come ora trova nuove occasioni.
I problemi sono invece quelli legati alla mobilità e al controllo del territorio: sono in crisi la prostituzione, lo spaccio, il mercato del cemento e quello delle costruzioni. La mafia tradizionale italoamericana di New York, che vive controllando i cantieri edili, è in crisi profonda. Infine ci sono storie interessanti ad altre latitudini: in Brasile, dove il presidente Bolsonaro ha negato e sminuito il problema Covid-19, alcune gang di trafficanti delle favelas hanno imposto loro la quarantena. Così facendo hanno ribadito di essere governo, di avere il controllo sociale totale. L’aspetto pericoloso non sta semplicemente nel commettere crimini ma nel fatto che le mafie come le gang vogliono governare sempre di più i territori e i mercati, in questo caso sono arrivate a sostituire lo Stato addirittura nella politica sanitaria».