Ci sono degli angoli di mondo in cui trova rifugio la memoria dei luoghi e dove il tempo sembra essersi fermato. Dove ancora le atmosfere sono intatte. Ci sono capitato due volte negli ultimi mesi. La prima volta quando sono entrato nel piccolo Oratorio di San Pellegrino a Bominaco, in Abruzzo. Era vuoto, silenzioso e gli affreschi del Duecento – un catechismo dipinto con le regole di vita e il calendario delle feste religiose e delle stagioni – mi hanno creato la vertigine di essere un pellegrino del Medioevo: tutto era esattamente come ottocento anni fa. La seconda a New York, di fronte allo studio della fotografa Susan Meiselas che vive e lavora a Mott Street. Lì ho trovato una scheggia di quella che per quasi un secolo è stata Little Italy, un quartiere con una storia densissima e ormai svanita. Il gusto di quel mondo l’ho trovato 500 metri più a sud, nell’ultimo avamposto di una cultura e di una tradizione: il negozio di alimentari Di Palo’s.
Sono andato a trovare Susan Meiselas per intervistarla per la nuova edizione di “A occhi aperti”, il mio libro sui fotografi e sulle storie dei loro scatti più famosi, che torna in libreria in questi giorni. Susan, che è diventata famosa per i suoi reportage di guerra e per il lavoro che ha fatto sui grandi temi sociali, vive da quasi cinquant’anni nella stessa casa studio a Manhattan.
Quando sono arrivato all’indirizzo che mi aveva dato, al numero 256 di Mott Street, sono rimasto incantato: era una casa diversa da tutte le altre, un edificio di mattoni rossi in stile gotico-vittoriano. Così mi sono messo a leggere la targa e ho scoperto che era stato costruito nel 1888 da John Jacob Astor III, uno degli uomini più ricchi di quel tempo, in memoria della moglie, impegnata per una vita nelle opere di assistenza all’infanzia. Venne utilizzato come centro sanitario per i figli degli immigrati italiani che arrivavano con le navi a Ellis Island, poi come scuola, finché a metà del secolo scorso le sue funzioni vennero meno e diventò un deposito di piastrelle di linoleum. All’inizio degli anni Settanta un piccolo gruppo di artisti e un architetto lo hanno salvato e restaurato. Nel 1974 Susan, allora giovanissima fotografa di Baltimora che aveva studiato Arti visive all’università di Harvard e insegnava fotografia nelle scuole pubbliche, stava cercando una casa con il suo compagno che si era appena trasferito a New York per fare il regista. «Avevo attraversato tutta Manhattan in bicicletta alla ricerca di un appartamento. Avevo provato a Soho, il posto dove volevano vivere tutti gli artisti, ma era inavvicinabile e non c’era un appartamento libero. Così mi spinsi dentro Little Italy e, mentre pedalavo, vidi un piccolo annuncio che diceva “subaffitto”. Si trattava di un seminterrato. Da allora non ho mai più cambiato indirizzo».
L’ingresso del palazzo è bellissimo, con le piastrelline, la scala e le boiserie di legno. Ma fuori di qui, in questo mezzo secolo, tutto si è trasformato. Susan ha girato il mondo, raccontando rivoluzioni e guerre, dall’America Latina al Kurdistan, per tornare sempre alla sua base in mattoni rossi, ma ogni volta qualcosa mancava, qualcosa si era aggiunto, qualcuno se ne era andato.
«Allora questo era un quartiere in gran parte italiano ed era una realtà mafiosa, se ne avvertiva chiaramente la presenza. Oggi tutto è cambiato: allora per strada c’erano i bambini che saltavano con la corda e qui accanto c’era ancora il fruttivendolo, che adesso è una profumeria. Il luogo delle decisioni era un club per “gentiluomini”, dove era sconsigliato avvicinarsi e anche solo guardare dalle vetrine, ora è diventato un ristorante marocchino».
Il Club esisteva ancora nel 1991, quando sono stato a New York per la prima volta e Little Italy era ancora un vero quartiere e non una sequela di ristoranti per turisti. Ricordo degli anziani seduti di fronte alle vetrine del club in cui si tenevano le riunioni dei capifamiglia, avevano il cappello in testa e l’aria diffidente. Il boss John Gotti ancora comandava e Vincent Gigante, capo della famiglia Genovese, vagava per il quartiere in pigiama, vestaglia e ciabatte per fingersi pazzo e sfuggire ai processi.
Little Italy era ancora piena di negozi italiani e si vestiva a festa per le festività religiose. Ora la chiesa cattolica all’angolo di fronte allo studio di Susan non è più una chiesa: è stata venduta quattro o cinque anni fa e il terreno è stato utilizzato per costruire una serie di appartamenti. Il destino della parrocchia di Mulberry Street, venduta per 13 milioni di dollari, è stato un cambiamento radicale per il quartiere, la fine simbolica di un’era.
L’ultimo punto di riferimento della comunità è Di Palo’s, il negozio che dal 1925 vende ricotta, mozzarella, olio e salumi italiani, ma è circondato da ristoranti e negozi cinesi. Entrarci significa fare un salto nel tempo, per i profumi, la lingua che si parla e la lentezza con cui tutto accade. È un luogo che non ama i turisti, tanto che un cartello all’ingresso avvisa che non si vendono sandwich, ma se entri e chiedi (meglio se in italiano) di avere un panino te ne fanno di strepitosi.
«Il quartiere – racconta Susan – si è ridotto e ritirato sempre di più negli ultimi decenni. La comunità cinese ha continuato a espandersi e le famiglie italiane si sono trasferite: se la passavano meglio e non volevano vivere in questi appartamenti modesti e molto piccoli, volevano la casa con il giardino e il garage e così sono andati in New Jersey o a Staten Island».
Nei primi mesi nel quartiere, Susan cominciò ad andare in giro con la macchina fotografica al collo e fece amicizia con un gruppo di ragazze che abitavano in alcune palazzine dietro l’angolo, su Prince Street: «Le ho conosciute piano piano, loro mi osservavano ed erano incuriosite perché non assomigliavo a nessun altro del quartiere. Allo stesso modo io ero incuriosita da loro, mi sembravano la cosa più interessante: mi affascinava il rapporto che condividevano, la loro fisicità mentre esploravano e scoprivano il proprio corpo, il loro diventare donne». Cominciò a fare loro dei ritratti: «Sono stata con loro per un periodo molto lungo e la forza e la motivazione del progetto stanno proprio in quell’arco temporale che permette di cogliere la trasformazione».
All’inizio però, per Susan quelle ragazze non erano un progetto di lavoro, ma solo un’esplorazione: «Infatti l’ho reso pubblico molto più tardi rispetto a quando ho fatto gli scatti negli anni Settanta: penso non siano stati pubblicati fino agli anni Duemila».
La cosa meravigliosa però è che Susan è sempre rimasta in contatto con quelle ragazze, le ha viste crescere, trovare lavoro, sposarsi e fare figli. Una delle caratteristiche del suo lavoro è di tenere un filo con i soggetti delle sue foto, di ricordarsi di loro, anche se oggi nessuna di quelle ragazzine vive più nel quartiere: «Sono tutte in New Jersey. Si sono trasferite quando si sono sposate». Loro non ci sono più ma Susan è rimasta la loro memoria storica, è lei a ricordare che cos’era il quartiere, tanto che alcuni anni fa ha pubblicato un libro raccogliendo dagli album di famiglia le foto scattate per decenni sui terrazzi in cima ai palazzi, dove si prendeva il sole lontani da occhi indiscreti, dove i giovani innamorati si baciavano di nascosto e dove si facevano le feste e le grigliate. Il libro si chiama “Tar Beach” e il testo lo ha scritto il regista Martin Scorsese.
Susan ama ricordare ma senza coltivare nostalgie e alla fine della lunga intervista che le ho fatto per il libro, le ho chiesto chi sia un fotografo al tempo di Instagram e degli smartphone. Se la sua professione abbia ancora un senso.
Mi ha risposto così: «L’altra sera ero all’Apollo Theater ad Harlem, per una serata in cui si esibivano degli artisti non professionisti, e tutte le persone di fronte a me stavano scattando foto con i telefoni. Allora ho pensato a come fosse incredibile che tutti facevano foto anziché guardare e che l’unico posto da cui avrei voluto scattare sarebbe stato dietro le quinte. Quello che voglio dirti è che è necessario trovare il proprio posto nel mondo e un senso di connessione che abbia un significato. È necessario trovare il proprio punto di vista, questo fa la differenza».