Come se un esercito di fameliche termiti l’avesse divorato, ridotto a uno scheletro, anzi meno di uno scheletro, una carcassa senza carne e senza ossa, che mani pietose hanno ricomposto: disiecta membra. I frammenti sparsi di quello che una volta era un aeromobile, un veicolo che solcava i cieli. Della sua sagoma saettante resta perfettamente distinguibile il timone, la parte posteriore, attraversato dalla doppia linea a punta del logo: Itavia. Volo 870. Un reperto archeologico di un’età a noi assai prossima: quaranta anni fa. Un’inezia nell’asse temporale della nostra civiltà. Un battito di ciglia, un attimo soltanto, e l’aereo non c’è più.
Ricostruire come si fa con i frammenti di un antico vaso, o di un manoscritto, di cui restano solo lacerti, brandelli, frantumi, da cui ripristinare tutto quello che manca, e che continua a mancare. Un lavoro faticoso e metodico, una necessità. Ma di quello che l’aeromobile trasportava – donne e uomini – non resta proprio nulla, neppure un frammento minimo, neanche un’unghia. Solo il corpo nudo e disfatto del veicolo. Unico rimasto. A terra, deposto, come una sindone: segno e simbolo degli assenti. L’ombra fatta di metallo e alluminio. Disiecta membra, parti scomposte e ricucite insieme: parte per il tutto. Questo è il compito della memoria. Ricordare.
*Marco Belpoliti, scrittore e saggista, acuto osservatore della realtà di ogni giorno e della memoria. Il suo ultimo libro è “Primo Levi, di fronte e di profilo” (Guanda, 2015).