E così siamo in quarantena, alle prese con la spesa, la dispensa e il frigorifero. «Che bello, finalmente abbiamo tempo per cucinare che non ce n’è mai abbastanza», pensavamo. Sono bastati solo un paio di giorni per realizzare che la cucina domestica non è uno slancio creativo o un’urgenza espressiva. Tutt’altro. Cucinare a casa – due volte al giorno tutti i giorni: pranzo, cena, pranzo, cena – è una necessità e un’incombenza bella e buona.
Improvvisamente ci siamo resi conto che anni di cooking show non sono serviti poi tanto, perché magari abbiamo comprato il sifone ma non riusciamo a far lievitare una crostata, disossare un pollo o sgrassare il brodo. E non sono serviti tutti quei patinatissimi libri di ricette che abbiamo messo sul tavolino del salotto, che appunto vanno bene per il salotto, ma sul fronte cucina a poco serve, oggi come oggi, replicare una marinatura di acqua di camomilla, datteri e tamarillo. Ci mettiamo in fila per la spesa e se ci va bene portiamo a casa un pacco di farina, mica possiamo perdere tempo a cercare il cedro candito o l’aceto di banane. Non è servito nemmeno seguire gli hashtag di cibo più popolari su Instagram o gli account di top chef e food blogger: i loro piatti perfetti generano qualcosa che somiglia all’ansia da prestazione. Ansia, un sentimento di cui oggi facciamo volentieri a meno.
Quindi ci siamo riparati dentro la nostra cucinina e ci siamo messi d’impegno a cucinare. Stiamo imparando nella quotidianità con la pratica da autodidatti, magari scovando qualche dettaglio nel cassetto dei ricordi o con l’aiuto della nonna o dell’amico bravo coi lievitati. Stiamo imparando a cucinare duro. Cucinare per davvero. Cucinare per necessità. Lo facciamo con tenacia, da settimane, perché è un modo per impiegare il tempo, per risparmiare denaro senza dover dilapidare un patrimonio con i pasti consegnati a domicilio, per essere autosufficienti acquisendo consapevolezza che la cucina è una grande metafora di vita e ci insegna – tra le altre cose – ciò che è essenziale e ciò che non lo è.
Ci piace così, perché la cucina domestica, quella vera, è splendidamente imperfetta, goffa, imprecisa. Proprio come noi. È la cucina del provare e riprovare, degli sbagli (lo diceva Julia Child, la cucina è l’unico posto in cui ci si può mangiare i propri errori!), delle correzioni e anche delle invenzioni (manca un ingrediente? Fa lo stesso, verrà comunque bene). È la cucina del “fare senza” (non ho il lievito? Pazienza, provo con il bicarbonato), del recupero – finalmente (questo avanzo è buono anche domani? Massì, non è poi così male) – e del non spreco. È anche la cucina della tradizione e del sapere familiare, cultura quindi e tante storie da raccontare. Soprattutto è la cucina dell’autoindulgenza e Dio solo sa quanto ne abbiamo bisogno in questo momento. La cosa bella è che abbiamo, dopo i primi tentennamenti, abbattuto ogni remora e così ci mangiamo le nostre crostate bruttine, i nostri pani sgonfi e i biscotti un po’ bruciacchiati. E li condividiamo sui social e nelle chat perché il cibo, in ogni caso e in ogni circostanza, non può fare a meno di essere condiviso.
E quindi proviamo, tutti, a creare, impastare, lievitare. Perché? Perché ci tiene vivi. Siamo tutti panificatori grazie a quei pazientissimi fornai che ci stanno spiegando come fare il lievito madre in casa (fosse facile peraltro!). Anche io, sabato mattina, ho avuto un moto di reazione al senso di morte che aleggia e ho iniziato a panificare. A tutta questa morte occorre rispondere con la vita. E il pane è vita. Simbolo stesso dell’essere umano e del suo ingegno, oggi lo invochiamo come gesto e cibo di speranza e ribellione. L’Universo ha inizio dal pane, diceva Pitagora, e forse pure noi, quando usciremo da questa quarantena, inizieremo una nuova era, anche rispetto al rapporto che abbiamo con il cibo e con tutto il mondo che vi gira intorno. Avremo certamente imparato a fare gli gnocchi di patate e la pizza al pomodoro, avremo imparato a fare la spesa e ordinare la dispensa. In fin dei conti avremo capito che la cucina è una questione di buon senso e creatività, semplicità e fantasia. Una cosa che possiamo fare tutti, proprio come stiamo facendo ora.
* Martina Liverani è giornalista e si occupa di cibo e cucina; nel 2013 ha fondato “Dispensa”, un semestrale che racconta storie di generi alimentari e generi umani, premiato nel 2017 ai Gourmand World Cookbooks Awards come miglior rivista di cibo italiana. È autrice dei libri “10 ottimi motivi per non cominciare una dieta” (Laurana, 2012) e “Manuale di cucina sentimentale” (Baldini & Castoldi, 2013). Vive e lavora a Faenza.