Ci sono momenti in cui scopriamo con sollievo che l’Italia è molto meglio di come viene descritta, che non è lo specchio del dibattito politico, ma un Paese che, lontano dalle polemiche politiche, è capace di risolvere problemi, inventarsi soluzioni e immaginare il futuro. Questo succede perfino nel tema che più divide, più accende gli scontri, le ansie e le paure: l’immigrazione. E se vi dico che esistono soluzioni che sostituiscono la paura con la speranza è perché ho 5.600 esempi.
Alcuni anni fa ho conosciuto due medici siriani, due chirurghi per la precisione, che erano fuggiti dalla guerra insieme alle loro famiglie e, dopo un lungo viaggio fino alla Libia, erano saliti su un barcone verso la Sicilia. Avevano fatto naufragio ma si erano salvati ed erano riusciti a raggiungere la Germania. Dopo poco tempo erano stati assunti dalla sanità tedesca e lavoravano a pieno ritmo in due ospedali pubblici. Ho ripensato mille volte a loro e a come noi italiani, per miopia e scarso senso pratico, li avremmo lasciati a far nulla in un centro di accoglienza.
Mille volte ho pensato a quello che viene chiamato “l’inverno demografico”, ovvero il calo drammatico delle nascite e l’invecchiamento della popolazione (per chi non l’avesse letta vi consiglio di recuperare l’intervista al demografo e Rettore della Bocconi Francesco Billari: la trovate qui), alla mancanza di manodopera che viene denunciata da ristoranti, alberghi, fabbriche, magazzini, ospedali e cantieri e nello stesso tempo alla quantità di persone che arrivano sulle nostre coste e che noi teniamo inattivi e marginalizzati. Che incredibile spreco di risorse e possibilità.
Credo che l’integrazione non sia da catalogare alla voce “buoni sentimenti”, ma possa essere invece una strada per ridurre gli impatti negativi delle migrazioni e valorizzare le opportunità.
Tutto questo è rimasto nella mia testa finché non ho incontrato Hamady, un ragazzo senegalese che nel suo Paese ha fatto il contadino e poi l’idraulico ma che, complici i racconti di uno zio che viveva in Italia, aveva il sogno di attraversare il Mediterraneo. Il suo viaggio, cominciato a vent’anni, è durato oltre un anno (per due mesi è stato nelle carceri libiche, ma prima di essere arrestato era riuscito a nascondere sottoterra i soldi che aveva messo da parte per pagare il viaggio verso Lampedusa) e lo ha portato dove sognava.
Il sogno di farsi una nuova vita è però svanito in fretta. Per tre anni è stato in un centro di accoglienza in provincia di Varese, completamente inattivo, con la sola opportunità di fare il centrocampista nella squadra di calcio locale. Ha sfruttato quel tempo vuoto per prendere la licenza media e, appena l’ha ottenuta, pur di lavorare, e grazie ad una colletta dei parenti, ha preso un treno verso Sud. In Puglia ha raccolto per due anni pomodori e zucchine per una paga da fame (4 euro l’ora), con turni estivi di 11 ore. Poi, sfinito da una quotidianità senza prospettive, ha trovato lavoro in un ristorante cinese nel centro di Foggia e poi in uno in provincia di Roma. Nessuno di questi impieghi gli ha mai permesso di poter pagare un affitto, costringendolo a un peregrinare lungo quasi dieci anni senza una meta. Sconfortato, a febbraio dello scorso anno è tornato alla casella di partenza: in Lombardia.
Una sera a Lodi, un ragazzo somalo gli ha parlato di un corso per provare a entrare a lavorare in un’azienda di cosmetici: «Mi ha detto che dovevo andare in una casa dove, sulla porta, c’era scritto Randstad. Sono andato la mattina dopo e mi hanno messo in mano un questionario da compilare, ho pensato che fosse un’altra strada senza speranza, ma quello stesso pomeriggio mi hanno chiamato». Hamady ha seguito ogni giorno un corso di lingua italiana e una serie di moduli sull’educazione civica e le regole dei posti di lavoro e, dopo tre mesi, è stato inserito come tirocinante nel magazzino dell’azienda di cosmetici. A settembre ha avuto il suo primo contratto e in un attimo tutto è cambiato: ha affittato una casa insieme ad altri due ragazzi, ha comprato il suo primo biglietto per andare allo stadio Meazza a vedere il Milan e oggi è un uomo che sorride spesso. Quando l’ho incontrato mi ha parlato dei suoi colleghi di lavoro, del responsabile del magazzino che ha avuto la pazienza di formarlo e di quanto sia orgoglioso di tutto questo. Poi mi ha fatto notare il regalo che si è fatto per Natale: un piumino rossonero.
L’opportunità che ha cambiato la direzione alla vita di Hamady e di altre 5.600 persone che sono arrivate in Italia da ogni luogo del mondo è un progetto che si chiama “Without Borders”, Senza Confini, e che silenziosamente viene portato avanti da oltre sei anni da Randstad, azienda che si occupa di ricerca, selezione e formazione di personale. Un programma pensato per favorire l’integrazione occupazionale di migranti e rifugiati, offrendogli le competenze, la formazione e anche il supporto psicologico per inserirsi nel mondo del lavoro.
Su queste storie è stato realizzato un podcast in 4 puntate, che si intitola “Una ragione per restare”, in cui si raccontano le vite di Hamady, Anastasiia (scappata dal Kiev due anni fa nel giorno delle bombe sull’aeroporto), Abdulkarim (studente afghano che, dopo aver partecipato al progetto è tornato all’Università e oggi studia informatica a Bari) e Marieme, arrivata in Italia dal Senegal per raggiungere il marito che grazie all’inserimento nel mondo del lavoro – oggi fa la cuoca – ha conquistato un’orgogliosa indipendenza economica.
Narrato dalla voce dell’attore Alberto Boubakar Malanchino, il podcast racconta il progetto insieme a Francesca Passavanti che è la responsabile del programma e a Giulia Ricci, un’insegnante di italiano, che spiega come sia importante non solo trasmettere la lingua ma anche la cultura e la tradizione del nostro Paese.
Spesso sono i dettagli a fare la differenza e così Anastasiia, che ha seguito i suoi corsi, mi ha raccontato di aver imparato la differenza tra spumante, Prosecco e Champagne, oppure quella tra i vari tipi di mozzarella: «È un modo per sentirsi un pochino italiani e a me ha fatto un regalo ancora più grande: mi ha permesso di trovare l’amore della mia vita, un ragazzo italiano che per passione fa il sommelier!».
Una cosa mi ha colpito delle storie che ho ascoltato: il modo in cui queste persone guardano all’Italia. Nonostante le difficoltà non c’è pessimismo e non ci sono mai i toni critici, disillusi con cui noi descriviamo il nostro Paese. Parlano di luce, di rinascita, di opportunità e di futuro. Avremmo bisogno, ogni tanto, di vederci con i loro occhi. Sarebbe molto utile.