Qual è il modo migliore che ognuno di noi ha per denunciare uno scempio, una devastazione, uno sfregio alla natura, alle cose o alle persone? La risposta più lineare e convincente è di mostrare gli effetti del gesto, far vedere a tutti cosa è stato combinato per fermare la mano distruttrice, correre ai ripari e, se possibile, curare la ferita. Sebastião Salgado, dopo una vita passata a mostrare carestie, guerre, popolazioni in fuga dai massacri, gironi infernali di lavoratori, oggi a 77 anni la pensa in modo diametralmente opposto: bisogna far vedere la bellezza, non la distruzione, e convincere il mondo a difenderla.
Per questo il grande fotografo brasiliano per sensibilizzarci sulla necessità di salvare l’Amazzonia non ha ritratto la foresta che brucia, quella che viene abbattuta per fare spazio all’agricoltura intensiva, il lavoro dei minatori o quello dei cercatori d’oro, ma l’Amazzonia vivente, l’Amazzonia reale, un luogo unico e straordinario, un paradiso.
Sebastião Salgado a questa missione ha dedicato gli ultimi sette anni della sua vita. Mesi di viaggi per raccontare quell’ottanta per cento di foresta ancora incontaminata, settimane passate a camminare, navigare, volare tra montagne e cascate, durante i quali ha realizzato 48 reportage, che ora sono diventati un grande libro e una mostra di più di 200 fotografie che apre oggi al Maxxi di Roma, si intitola Amazônia, e si potrà vedere fino al 13 febbraio del 2022.
Per parlare di questo lavoro straordinario sono andato a trovarlo a fine luglio, mentre era a Roma per controllare il piano di allestimento della mostra. Quella sera nel grande cortile del Maxxi l’ho intervistato pubblicamente chiedendogli di raccontare questa storia eccezionale di acqua, di terra e di cielo. Ne è nato anche un podcast, una nuova puntata di Altre/Storie che potete ascoltare qui in cui quasi commosso mi dice: «Il paradiso esiste: è l’Amazzonia. E le popolazioni che vivono in Amazzonia, vivono in paradiso. Vivono in maniera favolosa, hanno delle relazioni con la natura che sicuramente sono le stesse che avevamo noi 10 mila anni fa».
La prima volta che ho incontrato Salgado è stato dieci anni fa, ero andato a trovarlo nel suo studio, un ex negozio con quattro vetrine di fronte al canale Saint-Martin, in una zona poco turistica e molto tranquilla di Parigi. Avevo preso appuntamento per intervistarlo per il libro “A Occhi Aperti”, mi aveva fatto entrare e mi aveva raccontato la sua vita a partire dai giorni del genocidio in Ruanda nel 1994. In quel momento era iniziato per lui un percorso di sofferenza che coinciderà con il progetto sulle migrazioni, durato sette anni durante i quali aveva viaggiato in quasi quaranta Paesi per testimoniare un’umanità in fuga. Mi raccontò quel pomeriggio: «È stato il periodo più duro, ho documentato storie terribili: quello che ho visto nei miei molti viaggi nelle conseguenze del genocidio ruandese mi ha fatto perdere la fede nell’uomo e nel mondo. Sotto i miei occhi la gente moriva di colera, di diarrea, di ogni tipo di malattia, della violenza dei campi profughi. Alla fine di questo percorso stavo male, la mia salute era a pezzi. Ho girato molti medici, finché uno mi ha detto: “Il problema è che tu hai troppa morte dentro”. Così ho deciso che era tempo di cambiare vita e sono tornato nel paese dove sono nato, i miei genitori erano molto vecchi e mi hanno lasciato la loro fattoria, quella dove sono cresciuto da bambino. Quando ero piccolo era davvero un paradiso naturale, la casa era circondata da una grande foresta piena di fiori, con ogni tipo di uccello e perfino i giaguari. Ogni anno mio padre mi portava con lui nel lentissimo viaggio con cui spostava le mandrie, non durava mai meno di due mesi. Poi, per tornare a cavallo a casa, dove erano rimaste mia madre e le mie sette sorelle, galoppavamo per altri venti giorni».
Poi, cresciuto aveva lasciato il suo Paese e si era trasferito a studiare a Parigi, per diventare economista e poi fotografo. Dopo una vita di grandi racconti per immagini, sentiva di essere arrivato alla fine di un percorso, aveva 66 anni ed era tornato alle origini: «Mi sono ritirato a vivere nella mia casa di famiglia in Brasile con Lelia, ho abbandonato la fotografia, pensavo di non voler più fare foto perché io fotografavo gli esseri umani ed ero terrorizzato dalla violenza delle relazioni tra di noi. E lì ho cominciato a fare il contadino, ma la mia terra era completamente distrutta, completamente erosa. Allora abbiamo avuto l’idea di ripiantare la foresta tropicale che era sempre stata lì e con Lelia abbiamo iniziato a piantare milioni di alberi e, ritornando a vedere la natura in maniera molto molto profonda, mi è venuta una voglia matta di fotografare di nuovo».
Quel passaggio segnerà una svolta, il ritorno alla vita, che fiorirà con la ricerca di un equilibrio naturale con il gigantesco progetto Genesis con cui, mi raccontò a Parigi “ho ricostruito me stesso e la mia fede nel mondo, dopo tanta morte e violenza”.
Oggi, dieci anni dopo, riprende il filo di quel discorso: «Sì, ho ricostruito me stesso e la mia fede nel mondo e vedo il nostro pianeta sotto un altro punto di vista: so che un equilibrio è possibile. Noi siamo concentrati nelle città, nelle frustrazioni, persi nella burocrazia e nelle vite complicate, tolleriamo l’inquinamento degli Oceani, la povertà e la distruzione delle foreste. Ma non ho perso la speranza perché la cosa che ci ha reso superiori fino ad adesso non è la tecnologia ma l’istinto, non è la burocrazia ma la spiritualità, c’è qualcosa di più grande dentro di noi.Ho visto, nella foresta amazzonica, l’uomo di migliaia di anni fa e ho visto che siamo animali sociali, comunitari. Lì è la nostra salvezza».
Con questo spirito ha affrontato un viaggio nella storia dell’uomo,nel cuore del posto più remoto e incontaminato del pianeta. Un viaggio con tempi e difficoltà che non hanno paragoni: ogni volta un periodo di quarantena all’ingresso della foresta, poi almeno una settimana di navigazione, che cominciava sempre con grandi barche e finiva con piccole piroghe, lunghi cammini nella giungla, l’attenzione ai serpenti, la necessità di portare pannelli solari e batterie, medicinali e cibo. E compagni di viaggio esperti: «Ho sempre portato con me quelli che in Brasile chiamiamo “capitani della foresta”, sono uomini che non sanno né leggere, né scrivere ma che conoscono la foresta come le linee della loro mano. Sanno montare un accampamento, sanno pescare, sanno cacciare, sanno salire sugli alberi. Dunque, ne porto sempre due con me. È necessario poi essere accompagnati da uno o due traduttori e da un antropologo che conosce i gruppi indigeni».
Osservare le foto della mostra è stupefacente, uomini che hanno rarissimi incontri con la civiltà esterna fotografati di fronte a un fondale di tela largo nove metri e alto sei, che veniva fissato agli alberi più alti. Per arrivare a contatto con queste popolazioni è sempre stato necessario un iter burocratico molto lungo e le autorizzazioni del Funai, l’organismo che tutela le comunità indigene. Ma a Salgado hanno aperto le porte, convinti che la sua testimonianza sia vitale per il futuro del loro mondo. Gli ho chiesto subito però come abbia fatto a convincere quelle donne, quegli uomini e quei bambini a mettersi in posa di fronte alla sua macchina fotografica. Mi ha parlato di fiducia, di una semplicità di rapporti stupefacente ma soprattutto di serenità: «È stato molto facile lavorare con le comunità indigene: sono delle persone di pace, non c’è aggressività, vivono in una maniera molto pacifica. Ho incontrato tribù che, per non essere aggressive, non mangiano la carne di animali che hanno il sangue caldo, ma solamente pesce, tartaruga, serpente».
E questo è un dato che commuove Sebastião e lo ha aiutato a ritrovare la fiducia negli esseri umani: «Queste tribù amazzoniche rappresentano la nostra preistoria; mentre li incontravo pensavo che invece di andare verso gli indiani, stavo andando incontro a me stesso, verso di noi, verso l’homo sapiens. Gli indigeni sono esattamente noi, noi di diecimila anni fa. È qualcosa di incredibile e stupefacente».
Quest’ultimo lavoro di Salgado rappresenta davvero un ritorno alle origini, per lui e per ognuno di noi, un lavoro che gli ha dato una delle più grandi soddisfazioni della sua vita ma anche un senso di malinconia: «L’unico rimpianto che ho dell’Amazzonia è che terminato questo lavoro non potrò più tornarci, perché oggi, con il governo del presidente Bolsonaro, non mi daranno mai più l’autorizzazione per ritornare là dentro. In più sono diventato vecchio, ho quasi 78 anni. Per viaggiare in Amazzonia bisogna avere una buona salute perché si dorme nelle amache, ci si lava nei fiumi, si fanno i propri bisogni nei cespugli, si mangia quello che capita. Sapete, si cammina molto, dunque è necessaria una certa solidità. Il grande rimpianto è che l’Amazzonia è finita per me, ma spero sinceramente che non diventi il passato per l’umanità e che tutti noi facciamo il possibile per proteggere questo grande ecosistema che è essenziale per la vita di tutto il pianeta di tutti i suoi abitanti».
Ogni volta che finisce di parlare mi fissa con i suoi occhi azzurri profondissimi, incorniciati dalle folte sopracciglia bianche per assicurarsi che io abbia capito. Mi ha parlato in francese, mescolando la sua lingua adottiva con parole in portoghese, inglese e italiano. Ma il messaggio è chiarissimo e basta perdersi nelle sue foto per sentirlo dentro: il paradiso esiste ed è mostrare la bellezza la denuncia più forte che possiamo fare.