«Molte mattine mi sveglio stanchissima e mi dico: “Chi me lo fa fare di vivere in questo corpo, chi me lo fa fare di fare sport?”. Però poi ci penso e dico: “Ma, in realtà ci sono delle cose belle in questa vita e nelle cose che faccio”. Ho capito negli anni che è importante vedere il lato positivo delle cose e, se c’è una difficoltà, guardarmi allo specchio e capire come posso prendere le redini di questa difficoltà per superarla in qualche modo».
La ragazza che mi travolge con i suoi pensieri e un’energia contagiosa si chiama Veronica Yoko Plebani, è nata 25 anni fa vicino al lago di Garda, è un’atleta e il 27 agosto gareggerà con la maglia azzurra nel triathlon alle Paralimpiadi di Tokyo. La sua vita è cambiata quando aveva 15 anni e ha avuto una meningite batterica fulminante di tipo C. Si è salvata ma, nei quattro mesi e mezzo passati in ospedale, ha subito l’amputazione a metà dei piedi, ha perso quasi tutte le falangi delle mani e la malattia le ha lasciato cicatrici, che sembrano ustioni, su tutto il corpo.
Sono venuto a incontrarla in Sicilia, dove si allena sotto la rocca di Erice, perché amo le storie di chi trova la forza di rialzarsi il giorno dopo una caduta, perché il mio radar cerca sempre esempi di riscatto e di ripartenza. Ne ho incontrate tantissime, che ho messo nei miei libri, da Jawad ragazzo afghano che ha sfidato la poliomielite e i talebani per una scatola di matite a Daniela che non si è arresa ad un’incidente in moto che l’ha lasciata semiparalizzata e la settimana scorsa è tornata a guidare.
Ma in questa storia, che ho raccontato nel nuovo episodio del mio podcast Altre/Storie (che potete ascoltare gratuitamente qui), c’è dell’altro: non solo la capacità di accettare le fragilità e le ferite del proprio corpo ma di amarle e di mostrare che proprio nelle differenze sta la bellezza. Per questo mi sono seduto sotto un albero ad ascoltare Veronica Yoko per un intero pomeriggio.
Yoko è un nome giapponese che si dà alle bambine che nascono a marzo, che sbocciano con la primavera, e significa: bambina figlia del sole. Un nome che ha accompagnato un destino, quello di far crescere una ragazza solare, positiva e allegra. Non si è mai fatta fermare dalle ferite del suo corpo, non lo nasconde, anzi ogni giorno lo mostra senza timori o vergogne e ripete che se non accetti il tuo corpo stai rifiutando te stesso: «Il corpo è stata la mia soluzione. Attraverso lo sport faccio delle cose incredibili quindi non vedo niente di male nel mio corpo, anzi, vedo solo cose bellissime e questo mi aiuta a non avere nessun problema nel mostrarlo. Con il tempo ho capito che questo può essere d’aiuto anche per gli altri: è come se fossi diventata uno spazio dove le persone sanno riconoscere la fragilità. Molti sentono che è possibile avere delle fragilità e mostrarle e capiscono che si possono anche trasformare in qualcosa di positivo e accettarle».
Lo spazio di dialogo, di interazione e di inclusione di cui parla Veronica Yoko è il suo account Instagram, che usa per mostrare quanto la diversità sia feconda: «Per me Instagram e i social sono sempre stati una piattaforma positiva, non ho mai avuto grandi problemi, anzi ho conosciuto delle persone meravigliose di ogni parte del mondo. Sono spazi dove poter comunicare cose positive ma anche fragilità e momenti difficili, però bisogna essere autentici e disponibili a collegarsi con altre persone che ne hanno bisogno».
Dopo l’ospedale la vita di Veronica è ripartita dallo sport, la canoa prima, perché era la soluzione che aveva immaginato nel momento in cui non riusciva a rimettersi in piedi, e lo snowboard poi. Ma l’ha presa talmente sul serio che ha già partecipato a due Paralimpiadi: quelle invernali di Soči 2014 con snowboard e poi in canoa a Rio 2016.
Mai però avrebbe immaginato di riuscire a tornare a correre e di lanciarsi nell’avventura del triathlon, la sua gara prevede questa sequenza: 20 chilometri in bici, 750 metri di nuoto in mare e 5 chilometri di corsa.
«Anche quando mi sono rimessa in piedi ho sempre corso molto male, infatti erano tutti stupiti dalla mia voglia di correre, nonostante io mi facessi malissimo. Non ho mollato e ora ho trovato un nuovo tipo di protesi che mi aiuta molto e, soprattutto, dove non mi faccio male. E poi c’è il nuoto, che a me piace tantissimo. È una sensazione meravigliosa, soprattutto per le persone che hanno una disabilità: ritrovarsi in acqua e dimenticarsi un po’ del peso del proprio corpo, dei propri limiti e in mare poi provo una sensazione di libertà fantastica». Le piace talmente tanto che nuota tra le onde anche durante l’inverno: «Anche a gennaio: una buona muta, un po’ di spirito e ci si butta».
Una delle risposte più belle del nostro incontro me la regala quando le chiedo quale sia il suo rapporto con la fatica: «Pane quotidiano. Facendo sport agonistico ormai da tanti anni, la fatica è costantemente presente in tutto quello che faccio. Devo ammettere che a me piace molto faticare, non so se è una cosa che ho ereditato dalla mia famiglia bergamasca che mi ha cresciuto con questa mentalità: devi faticare perché è ciò che ti rende migliore. Sicuramente mio nonno è un esempio pazzesco: ha 85 e non si ferma mai, è sempre lì a lavorare. Però questa mentalità, questo adorare la fatica come strumento che ti porta a ottenere quello che vuoi, è una cosa che mi piace».
L’anno di qualifiche sta per chiudersi, Veronica Yoko è quarta nel ranking mondiale, a Tokyo vanno le prime dieci, ma lei è più preoccupata dall’assenza del pubblico, della sua famiglia e del suo fidanzato che dal podio. A ricordarle che non è sola i due tatuaggi che si è fatta sulle braccia: «Il primo me lo sono fatta con mia mamma per il suo sessantesimo compleanno, sono otto fiori di loto, stilizzati. Lo abbiamo scelto perché è un fiore bianco, puro, che rinasce dal fango. L’altro invece è legato a mio papà Massimo, è lo stesso tatuaggio che ha lui: sono rappresentate le M di Massimo e Mabì, mio fratello, e le V di Veronica e Viviana, io e mia mamma. È un simbolo di famiglia che aveva disegnato mia madre tanti anni fa. Li porto sulla mia pelle».