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12 Giugno 2023

Riparare il futuro, il viaggio di Mykola

Mykola ha quarant’anni, la guerra gli ha portato via il braccio sinistro e il pollice destro, la possibilità di abbracciare i suoi figli e di essere indipendente. Nella sua situazione ci sono diecimila persone oggi in Ucraina, ma un viaggio fino a Torino gli ha regalato una nuova vita.
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In quarant’anni Mykola era uscito dai confini del suo Paese una sola volta, per due giorni, e non per sua volontà. Stava per finire il 2014 e lui dalla primavera combatteva con l’esercito ucraino in Donbass quando venne fatto prigioniero dalle forze separatiste e portato in Russia. Ci rimase solo 48 ore prima di essere scambiato con un altro ragazzo che aveva avuto la sorte opposta. Dieci giorni fa è partito di nuovo. Questa volta il suo viaggio lo ha portato a Ovest e non era prigioniero, anzi, era un viaggio di libertà che conteneva molte promesse: poter abbracciare i suoi figli, riuscire ad allacciarsi le scarpe, cucinare, aprire una birra e tornare a lavorare. 

Mykola sorridente nella clinica dove l’ho incontrato. La maglietta che indossa ricorda i nomi delle città ucraine martiri di questo primo anno di guerra

Per questo ha percorso 1.780 chilometri, ha attraversato la Polonia, la Repubblica Ceca, l’Austria e tutto il Nord Italia fino a Torino. Quando è sceso dal pulmino, dopo 23 ore di viaggio, era stanchissimo ma in preda a una sensazione strana, come una febbre di vedere, di muoversi e di scoprire. Anche se era già buio ha cominciato a camminare e a fare video: il fiume, la Mole Antonelliana illuminata, le piazze. Ha scelto persino il bar e il tavolino dove avrebbe preso il caffè la mattina dopo: in una grande piazza con vista sulla collina.

Quando è riuscito ad addormentarsi era quasi mattina, troppe emozioni per chiudere gli occhi e poi quella promessa: riavere il braccio sinistro e il pollice della mano destra. Quei pezzi del suo corpo che una granata gli ha portato via alla vigilia di Ferragosto dell’estate scorsa.

Su quel pulmino Mykola non era solo, c’erano altri tre ragazzi, tutti più giovani di lui. Il più piccolo, Ruslan, ha appena 23 anni e ha perso tutte le dita a Natale, mentre faceva legna nel bosco e ha toccato una mina.

Quattro ragazzi su diecimila. Tanti sono i giovani ucraini, soldati ma anche civili, che hanno subito amputazioni. Una generazione mutilata.

Loro quattro saranno i primi ad avere delle protesi bioniche, nuove mani mosse da elettrodi capaci di captare i segnali delle contrazioni dei muscoli. Un ritorno totale alla vita.

Mykola, che nell’esercito era stato ribattezzato “il filosofo”, perché sorride sempre e non perde mai la calma, quando ha testato la sua mano il primo gesto che ha provato a fare sono state le corna. Ci è riuscito e per tutta la settimana la sua mano in prova, appoggiata sul tavolo, ha tenuto quel gesto scaramantico. Ma un attimo prima che io gli facessi la foto, si è imbarazzato e ha raddrizzato l’anulare e il medio.

La protesi della mano bionica realizzata per Mykola, con la quale potrà ritornare a realizzare movimenti che pensava di aver perso per sempre

L’approdo del loro viaggio e delle loro speranze è una palazzina di due piani che si affaccia sulla Dora Riparia: l’Officina Ortopedica Maria Adelaide, un’azienda di famiglia con settant’anni di storia, diretta dai fratelli Alessio e Roberto Ariagno.

Sono stati scelti perché sono specialisti di protesi bioniche per amputazioni complesse, costruite con fibre di carbonio e titanio, e perché sono all’avanguardia in Europa. A sceglierli è stata una Ong che si chiama “Superhumans, nata con fondi privati – la prima grande donazione è stata del miliardario americano Warren Buffett – e che si ripromette di aprire cinque ospedali in Ucraina. Il primo è appena stato inaugurato a Leopoli e la missione è quella di fare chirurgia, costruire protesi e fare riabilitazione fisica e psicologica di chi ha subito ferite con amputazioni. Molti soldati ma anche tantissimi civili.

È stato Roberto a ricevere un messaggio su LinkedIn: gli chiedevano se avesse delle soluzioni per quattro pazienti con situazioni molto complesse. Quando ha risposto di sì, lo hanno invitato in Ucraina. Li ha visitati, ha studiato e poi li ha lasciati con una promessa: «Venite in Italia tra un mese, restate da noi dieci giorni, e tornerete a casa con nuove braccia, mani e dita».

L’ingresso dell’Officina Ortopedica Maria Adelaide, all’avanguardia in Europa nel settore delle protesi bioniche

Mykola Efimenko è nato nel 1982, quando ancora esisteva l’Unione Sovietica, a scuola si parlava solo russo ma a casa ucraino, ha studiato da tecnico e nella vita civile era responsabile del funzionamento di una cartiera. È divorziato e ha due figli, 18 e 12 anni. Per molti come lui la guerra non è cominciata il 24 febbraio del 2022 ma otto anni prima: «Quel giorno, quando è iniziata l’invasione su vasta scala, ero di guardia di fronte al Palazzo dello Stato Maggiore, a Kiev. Ma per me non è stato uno choc, dalla prima missione in Donbass del 2014 avevo già perso un sacco di commilitoni, ero stato ferito alla colonna vertebrale ed ero stato a riposo per la sindrome post traumatica da stress. Poi ero stato riesaminato e avevano deciso di rimandarmi al fronte». Sorride e aggiunge: «Non ho fatto storie perché ho pensato ai miei figli e al mio Paese e che c’è bisogno di tutti per provare a finire questa guerra».

Quando gli chiedo cosa significhi “finire la guerra” mi risponde secco: «La pace». Allora insisto, come si arriva alla pace? «Rimandando i Russi oltre il confine, a casa loro».

Il 14 agosto del 2022 stava guidando la sua unità in una zona a metà strada tra Donetsk e Mariupol quando sono finiti sotto attacco. Mykola ha dato l’ordine di ritirarsi ma è stato l’ultimo a muoversi, prima si è assicurato che fossero tutti al sicuro. Quando è stato il suo turno è arrivata una granata: le schegge gli hanno portato via il braccio sinistro e una parte della mano destra: «Non ho perso conoscenza, ma sanguinavo tanto, per raggiungere i miei ho dovuto fare quindici metri che mi sono sembrati non finire mai. Mi hanno caricato su una jeep, che mi ha portato a un’ambulanza che mi ha trasportato a una specie di pronto soccorso da campo dove ho subito l’amputazione molto sopra il gomito. Poi sono arrivato all’ospedale di Dnipro, ma avevo perso la sensazione del tempo e ho scoperto solo molto tempo dopo che c’erano voluti due giorni.Per otto giorni non ho comunicato con nessuno, la mia famiglia non sapeva nulla di me. Non avevo più il telefono e non ricordavo nessun numero, non sapevo come fare».

Una foto di Mykola con l’amico Vladimir, nome di battaglia “Taxi Driver”, caduto sul fronte poco tempo dopo questo scatto

Al sesto giorno un amico, che era stato al fronte con lui fin dall’inizio, lo ha trovato e si è preoccupato di chiamare la sorella e i figli. Mentre me lo racconta smette per la prima volta di sorridere: «Si chiamava Vladimir, il suo nome di battaglia era “Taxi Driver”, è rimasto con me finché non mi sono rimesso in piedi, l’ultima nostra foto è nel giardino dell’ospedale. Poi è tornato al fronte e, nello stesso punto in cui ero stato colpito io, è toccato a lui. Ma non è sopravvissuto».

Della sua unità di trenta persone, sono rimasti soltanto in otto: «Giorno dopo giorno siamo stati sempre meno, chi è morto e chi è stato ferito. Mi mancano molto tutti loro, ogni sera guardo le nostre foto sul telefono».

Della nuova vita, passata in un centro di riabilitazione di Leopoli e poi a casa con suo figlio maggiore, gli pesavano tre cose: gli sguardi di compassione della gente, la mancanza dell’indipendenza e l’impossibilità di tornare a combattere o a lavorare.

«Poi mia sorella ha reso possibile tutto questo, ha sentito parlare del progetto “Superhumans” e li ha contattati. Loro hanno studiato il mio caso e poi hanno detto che forse la speranza per me stava in Italia. Così ho incontrato Roberto e ho ricominciato a immaginare il futuro».

All’Officina Ortopedica Maria Adelaide hanno realizzato per lui una protesi mioelettrica per il braccio, con mano multiarticolata, e una mano meccanica per la ricostruzione del pollice sinistro. «Sono molto felice ed emozionato di essere tra i primi, nessuno ha una protesi così, una cosa che non avrei mai immaginato».

Mykola con Roberto Ariagno, che con il fratello Alessio dirige l’Officina Ortopedica Maria Adelaide

Mentre parla gioca con la sua nuova mano, mi fa vedere i video che ha girato per Torino e continua a ripetermi che il caffè è buonissimo e che la gente è molto gentile e ospitale.

Gli chiedo di descrivermi questo futuro: «Lo vedo calmo e pacifico, tornerò alla cartiera quando la guerra sarà finita. Non ho idea quando sarà, ma sono sicuro che finirà e che salveremo il nostro Paese».

Mercoledì 7 giugno il pulmino è ripartito per l’Ucraina, con i 4 ragazzi e sette nuove protesi. Roberto Ariagno, che di ferite, mutilazioni e situazioni tragiche ne ha viste tantissime (ha cominciato ai tempi della guerra in Bosnia) questa volta si è commosso. Mentre andavano via felici lui piangeva, non riusciva a fermarsi, ma ha pensato che andava bene così.

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