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17 Luglio 2023

Tutti i vostri maestri. E il mio

Dopo la storia del professor Novara ho ricevuto centinaia di ricordi di insegnanti che hanno cambiato la vita. Oggi vi racconto del mio, un docente di Storia dell’Arte che mi ha spiegato come guardare il mondo
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Cosa rende una o un insegnante una persona speciale, memorabile, un riferimento che resta con noi per tutta la vita? Me lo sono chiesto dopo il successo del podcast e della newsletter sul professor Enzo Novara, salutato con una lunga ovazione di tutti gli studenti del suo liceo dopo l’ultima lezione prima della pensione. La risposta non credo che sia quella più ovvia e lineare: aver insegnato bene, con scrupolo e con dedizione. Penso che la differenza la faccia una cosa sola: mettersi in gioco.

Alcuni dei tanti commenti arrivati sul mio account Instagram di chi ha ricordato un professore a cui era particolarmente legato

Ognuno di noi lascia una traccia nella vita degli altri quando fa qualcosa di più di ciò che è atteso o dovuto, quando corre il rischio di aprirsi, quando regala qualcosa. Quando si sente che la passione è vera, tanto da colorare momenti della vita che altrimenti sarebbero ordinari.

I commenti di tutti quelli che hanno interagito con l’ultima newsletter (la trovate qui) raccontavano di una maestra o di un maestro che sono rimasti nella memoria perché avevano qualcosa che scartava dall’ordinarietà.

Se guardo indietro al mio tempo scolastico non posso non pensare a un professore – Enzo Falchetti – che per molti versi era faticoso, irascibile e severo, ma che ogni sabato ci leggeva ad alta voce “I promessi sposi”, camminando per due ore avanti e indietro nella classe.

Sono passati quasi quarant’anni ma io ancora sento la sua voce e ognuno di noi ricorda frasi, toni, momenti in cui il tempo della scuola si è fermato e ci è rimasto incollato addosso.

Nel mio libroUna volta solaracconto di Eugenio Riccomini, che insegnava Storia dell’arte all’università Statale di Milano e che, inconsapevolmente, mi ha insegnato non tanto la storia della pittura ma l’arte del racconto.

Le sue lezioni occupavano la più grande delle aule dell’Università, Riccomini era una vera e propria star e per trovare un posto alle sue lezioni bisognava arrivare un’ora prima. A seguirle venivano anche gli studenti che non c’entravano niente, quelli di Giurisprudenza, Scienze Politiche e perfino di Medicina.

Aveva sempre il farfallino, un leggero accento emiliano e una capacità affabulatoria incredibile. Quell’anno ci portò nell’Olanda del Seicento, nella pittura borghese di Rembrandt, Vermeer, Frans Hals, Pieter de Hooch, Frans Post. Ce li raccontò con una tale passione, in un modo così coinvolgente e vivo che io non ne ho dimenticato nessuno, come fossero davvero stati miei compagni di corso. Così quando li vedo da lontano, entrando in una sala di museo, li riconosco al volo e mi emoziono.

Autoritratto di Rembrandt del 1658 conservato alla The Frick Collection a New York

È bellissimo quando accade per caso e non me lo aspetto, ed è bellissimo quando vado di proposito a salutarli, lo faccio alla National Gallery a Londra, al Louvre a Parigi, a New York alla Frick Collection dove Rembrandt è anziano, ha la faccia sfatta e gonfia, un bastone dorato nella mano sinistra e abiti regali. Io so che lui lì era serio e preoccupato perché era carico di debiti, dovuti alla sua mania di comprare oggetti preziosi e esotici che trovava dai mercanti e dai viaggiatori olandesi, vecchie stampe, quadri e gioielli (quelli che indossa o fa indossare ai soggetti dei suoi quadri), così a cinquant’anni era ormai fallito e rischiava la prigione. I suoi beni e la sua casa vennero confiscati e messi all’asta. Lo sappiamo perché l’elenco delle proprietà che gli portarono via è arrivato fino a noi. Quando l’ho visto la prima volta a Manhattan io avevo 24 anni e mi sembrò semplicemente l’autoritratto di un uomo vecchio, oggi invece, che ho la stessa età di quando lui si mise in posa per sé stesso, nel suo volto riesco a leggere i lutti e le difficoltà di una vita. Aveva perso tre figli appena nati, solo il quarto, Titus, riuscì a diventare grande, ma sarebbe morto un anno prima del padre. Era rimasto vedovo di Saskia, scomparsa di tubercolosi a soli trent’anni e anche la sua pittura era cambiata diventando più scura, spessa e materica.

Quel corso ha cambiato il mio modo di vedere il mondo e l’arte, anche perché alla fine delle lezioni Riccomini ci portò in Olanda. La gita di classe dell’Università fu un’esperienza strepitosa, inizialmente non programmata e cominciata quasi per scherzo, per una battuta. Accettò di mettersi in gioco fino in fondo e fare qualcosa di insolito come il viaggio per “andare a trovare” i maestri olandesi del Seicento.

“Le palme” dei paesaggi brasiliani dipinti da Frans Post

Partimmo in febbraio. Per prima cosa ci portò a trovare Saskia, la giovane moglie di Rembrandt che è sepolta alla Oude Kerk, la chiesa più antica di Amsterdam. Ricordo Riccomini che con passo svelto guidava il gruppo alla ricerca di un fioraio, dove comprò un piccolo mazzo che portammo sulla tomba, una semplice lapide nel pavimento dove è inciso soltanto il nome e la data di morte: 14 giugno 1642. Andammo nella casa museo, prendemmo il treno per l’Aja, dove ci fece conoscere Vermeer, una mattina facemmo colazione con un panino con le aringhe e la cipolla al mercato di Haarlem prima di andare a trovare Frans Hals, un pittore velocissimo che ha lasciato un’immensa galleria di ritratti dei suoi contemporanei. Mi innamorai delle palme di Frans Post in una serie di paesaggi brasiliani che dipinse in un lungo viaggio in Sud America. Capii la differenza tra la modernità di un’arte voluta da una committenza borghese, come quella dell’Olanda del Seicento, e l’arte pagata dai nobili e dalle corti come in Francia, Spagna o Italia. Fu una gita di pochi giorni, ma sono tra quelli che hanno lasciato un segno.

La mia lunga conversazione con il prof. Enzo Novara è nell’ultimo episodio del mio podcast Altre/Storie di Chora Media

Riccomini ha 87 anni e vive a Bologna, la città in cui è anche stato consigliere comunale per decenni, assessore alla cultura e due volte vicesindaco. Lo scorso anno, dopo una visita al Louvre, mi sono procurato il suo numero di cellulare e dopo trent’anni l’ho chiamato per dirgli grazie. Grazie perché ha lasciato un segno indelebile.

Non era stupito e la voce era brillante e intrigante come trent’anni prima. Gli ho detto che le sue lezioni hanno cambiato il mio modo di vedere l’arte, mi ha risposto che era esattamente quello che si prefiggeva nei suoi corsi: «Insegnarvi a godere dell’arte, non riempirvi la testa di nomi e nozioni, ma di vite, di storie e di un punto di vista». Si ricordava benissimo del viaggio, mi ha ripetuto che “La ragazza con il turbante” (comunemente nota come “La ragazza con l’orecchino di perla”) non è il quadro più bello di Vermeer, anche se il più famoso, e che per lui è impossibile fare classifiche: «Non mi chiedere se è meglio Velásquez, Tiepolo o Rembrandt, io me li voglio godere tutti». Oggi si muove a fatica, ma ringrazia di avere la testa che funziona: «Mi permette di leggere, pensare, ascoltare e ricordare».

L’affresco della volta dello scalone della reggia di Würzburg, realizzato da Giovanni Battista Tiepolo

Alla fine della telefonata – a cui ne sono seguite altre e uno scambio di libri – mi ha regalato un’ultima lezione e un compito: «Quando sei davanti a un quadro prendi tempo e immagina che sia una tela bianca, fingi di essere tu il pittore, chiediti da dove cominceresti, con che parte, facendo cosa, quanto tempo ci potresti mettere. Segui il lavoro che ha fatto. Fatti conquistare dalla complessità e dai dettagli. E poi, se non ci sei mai stato, vai alla reggia di Würzburg in Germania, a metà strada tra Norimberga e Francoforte. Devi vedere l’immenso affresco dipinto da Giambattista Tiepolo e da suo figlio Giandomenico sulla volta sopra lo scalone. È lungo circa trenta metri e largo venti, rappresenta i quattro continenti e l’Olimpo, è un’opera indimenticabile realizzata nel 1750. 

Io immagino Tiepolo arrivare a Würzburg, dove era stato chiamato dal vescovo Karl Philipp von Greiffenclau, e scendere insieme ai suoi due figli dalla carrozza infangata con cui aveva attraversato le Alpi. Lo vedo entrare nella reggia, costruita sullo stile di quella di Versailles, salire lo scalone e alzare gli occhi verso il soffitto. Chissà cosa ha pensato, da dove è partita la sua creatività, cosa ha visto e immaginato? Fai il viaggio, non te ne pentirai e mentre sali la scala immagina di essere Tiepolo, fatti conquistare da quella vertigine creativa».

Non ci sono ancora andato ma anche la sua ultima lezione è rimasta impigliata nella mia testa.

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