“Scrivo da un paese che non esiste più: spazzato in pochi istanti da una gigantesca valanga d’acqua, massi e terra piombata dalla diga del Vajont. Circa tremila persone vengono date per morte o per disperse senza speranza (…).Un tratto dell’alta valle del Piave lungo circa cinque chilometri ha cambiato volto e oggi ricorda allucinanti paesaggi lunari. Due strade statali e una ferrovia sono state distrutte; pascoli, campi e boschi sono stati ricoperti di pietre e fango. È una tragedia di proporzioni immani. Tutto è accaduto in meno di dieci minuti…”. L’incipit di questo articolo di Giampaolo Pansa, che allora era un cronista della Stampa di soli 28 anni, è la prima cosa che ho letto quando ho cominciato a studiare giornalismo. Rimasi folgorato dalla chiarezza, dalle parole perfette e scolpite, dall’immagine che non si poteva dimenticare.
Il paese che non esisteva più era Longarone, un piccolo comune della vallata del Piave, a nord di Belluno. Cancellato dalle mappe la notte del 9 ottobre 1963. Mi sarebbe piaciuto leggere di più, capire come fosse stato possibile, ma non avevano ancora inventato Google e l’unica possibilità era andare a cercare in biblioteca. Non lo feci, ma pochi mesi dopo, fuori dall’università, sentii parlare di uno spettacolo teatrale che raccontava proprio la storia del Vajont. Nel passaparola non si riusciva a capire bene di cosa si trattasse: era uno spettacolo di teatro, ma non lo si poteva vedere a teatro. Sul palco c’era una persona sola con una lavagna e la storia che raccontava era vera. Ogni volta era in un posto diverso. Lo avevano fatto nei centri culturali, nelle fabbriche, nelle scuole e perfino negli ospedali. Era una cosa un po’ clandestina. Ci andai con un gruppo di amici, non ricordo dove fosse, nella mia testa ho solo la sensazione che fossi seduto per terra. Una cosa, però, la ricordo alla perfezione: era la cosa più potente che avessi mai visto e ascoltato. Un monologo di due ore e mezza in cui era impossibile distrarsi anche solo un attimo. Raccontava della costruzione della diga della Società Adriatica di Elettricità (SADE), un capolavoro di ingegneria, alta 261 metri, era una delle più avveniristiche del mondo.
Quell’uomo solo sul palco raccontava come, negli anni della progettazione e costruzione, fossero stati ignorati, sottovalutati, nascosti tutti gli allarmi su una possibile frana che poteva investire la diga.
Quell’uomo solo sul palco si chiamava Marco Paolini, drammaturgo, regista, attore di teatro, che scrisse e interpretò un monologo che entrò nella storia del teatro e poi della televisione italiana.
Alle 22.39 del 9 ottobre 1963 un’enorme frana si staccò dal Monte Toc, cadde dentro il bacino artificiale del Vajont e sollevò un’onda d’acqua alta oltre venti metri, che si abbatté sui paesi che si trovavano nella valle sottostante, spazzandoli via: morirono 1.910 persone. Ricordo che Paolini disse che prima dell’acqua arrivò il vento, uno spostamento d’aria capace di distruggere tutto, e ricordo che pensai a Hiroshima.
Era il 1993, eravamo nel pieno dello scandalo di Tangentopoli, i partiti che avevano governato l’Italia per quasi mezzo secolo stavano crollando. Tutto ci parlava di uno stato opaco, di cose incomprensibili, della necessità di avere verità e giustizia. Erano passati solo trent’anni da quel disastro e l’indignazione di Paolini si sposava alla perfezione con quella che stava scuotendo l’opinione pubblica italiana. Nel 1997 quel monologo, che aveva la regia di Gabriele Vacis, andò in televisione, su Rai 2, e fu un successo clamoroso. Poi Paolini smise, si fermò, e questa storia rimase nella memoria.
Sono passati altri trent’anni e oggi il mondo è diverso, siamo preoccupati per il cambiamento climatico, ci allarmano i disastri ambientali. Marco Paolini ha ripreso quel testo in mano, lo ha reso più asciutto, ha cambiato il tono e nel sessantesimo anniversario ha immaginato che quell’uomo sul palco non dovesse essere più solo, che il racconto del Vajont dovesse diventare “Vajonts” al plurale. Il progetto è molto più ambizioso: farlo diventare di tutti. Il testo (che trovate integrale a questo link) è – come spiega Marco – «il racconto del Vajont trasformato in coro per essere letto a voce alta in casa, da cinque o più persone, non come un esercizio di memoria ma come monito del tempo presente, monito a non subire il destino di vittime, a scegliere di non affrontare la crisi climatica in solitudine, a ribellarsi al negazionismo, all’opportunismo dei piccoli passi».
VajontS 23 sarà come un canovaccio. Ci sarà chi lo metterà in scena integralmente, chi lo userà come uno spunto e lo legherà alle tante tragedie annunciate che si sono succedute dal 1963 a oggi: in Toscana l’alluvione di Firenze del 1966, in Piemonte si racconterà di quando il Po e il Tanaro esondarono nel 1994, in Veneto delle alluvioni del 1966 e del 2010, in Campania della frana di Sarno del 1998, in Friuli degli incendi del Carso nel 2022, in Alto Adige della valanga della Marmolada del 3 luglio del 2022 e in Romagna dell’alluvione di maggio.
Lunedì 9 ottobre ci saranno oltre 600 messe in scena contemporanee in Italia e nel mondo, hanno aderito 135 teatri, 94 scuole, gruppi di lettura, parrocchie, comuni e aziende.
Alle 22.39, nell’istante esatto in cui iniziò il disastro, uscirà anche un podcast, curato da Chora Media, con la registrazione della prova del nuovo spettacolo messa in scena all’inizio dell’estate a Milano negli spazi dell’ex ospedale psichiatrico Paolo Pini, che oggi hanno preso il nome da una frase di Franco Basaglia: “Da vicino nessuno è normale”.
Alla fine di settembre sono stato ai Dialoghi di Trani per partecipare a un evento della “Fabbrica del mondo”, un progetto che cerca di costruire un pensiero condiviso per immaginare il futuro.
Alle 11 di sera abbiamo fatto una passeggiata sul porto, gli ho raccontato cosa è stato per me il suo Vajont – una presa di coscienza di quanto il racconto possa avere una funzione civile – e poi gli ho chiesto di raccontarmi la storia di quello spettacolo e di cosa sia cambiato in questi trent’anni.
Ci siamo seduti su una panchina e ho acceso il registratore. La nostra chiacchierata la potete ascoltare qui, nella nuova puntata del mio podcast Altre/Storie.