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28 Maggio 2020

Vetta libera! O quasi

Con la quarantena, Cina, Nepal e Pakistan hanno chiuso gli accessi all’Everest. E sono sparite le lunghe code di persone in attesa di salire sul tetto del mondo. Un bene per l’ambiente, un dramma per chi vive di turismo. Ma Pechino ne ha approfittato, ecco come
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Esattamente un anno fa, era la fine del maggio 2019, una foto incredibile faceva il giro del mondo: mostrava 200 persone in fila indiana, una attaccata all’altra su una sottile cresta innevata, in attesa del loro turno per mettere piede sulla vetta più alta del mondo. Le giacche a vento colorate e la maestosità dell’Everest non potevano distrarre dall’insensatezza di un’attesa pericolosissima a 8.800 metri d’altezza. L’ingorgo più alto della Terra era figlio di una condizione meteo eccezionale: un solo giorno senza vento e senza nubi per arrivare in cima. Sapendo che la finestra di bel tempo sarebbe durata così poco, tutte le spedizioni in programma avevano dato l’assalto in contemporanea al re delle montagne. Il prezzo fu ben presto evidente: undici morti in pochi giorni.

La lunga coda di scalatori in attesa di salire sulla cima dell’Everest, il 24 maggio del 2019. La foto è stata postata su Twitter dall’alpinista Nirmal Purja di “Project Possible”

Dodici mesi dopo i 14 “Ottomila”, le montagne più alte del mondo divise nelle due catene dell’Himalaya e del Karakorum, sono immersi nel silenzio, non ci sono tracce di ramponi, campi-base, sherpa, spedizioni di salita o di soccorso. Il lockdown deciso da Nepal, Cina e Pakistan ha chiuso completamente per la prima volta nella storia queste montagne e le loro vallate. Chi era inorridito l’anno scorso può tirare un romantico respiro di sollievo e pensare che anche qui la natura si è ripresa i suoi spazi, chi vive in queste valli invece sta sprofondando nella disperazione: il turismo d’alta quota, non solo l’alpinismo ma soprattutto i trekking, è la prima fonte di guadagno.

Prima di capire cosa sta succedendo, però, bisogna registrare che il governo cinese ha sfruttato la pandemia per lasciare un segno sul punto più alto del pianeta. Nella corsa simbolica contro l’Occidente a conquistare la supremazia nella scienza, nello spazio, negli armamenti, nelle tecnologie e nel vaccino contro il coronavirus, Pechino ha autorizzato una missione ufficiale di scalatori sul versante cinese dell’Everest. La vetta è stata raggiunta martedì 26 e il governo ha annunciato che i suoi alpinisti hanno misurato la montagna stabilendo che è alta 8.844 metri, quattro meno di quanto indicato da nepalesi e inglesi.

Proprio i nepalesi avevano lanciato tre anni fa un processo di raccolta dati per arrivare a definire la misura esatta dopo il terremoto del 2015, che si sospetta abbia prodotto una variazione. Per evitare diatribe lo scorso ottobre, al termine della visita di stato a Kathmandu del presidente Xi Jinping, i due Paesi avevano deciso che avrebbero annunciato insieme la nuova altezza dell’Everest. Invece, nel mezzo della quarantena, i cinesi hanno deciso di fare da soli e hanno anche voluto fare un altro significativo gesto simbolico, piazzando nel campo base un’antenna con tecnologia Huawei per portare il segnale 5G sull’Everest.

Marco Camandona, 49 anni, guida alpina valdostana con residenza sotto il Gran Paradiso, ama il Nepal in modo particolare, non ha la malattia dei record anche se è già arrivato senza ossigeno sulla cima di nove dei 14 “Ottomila” e cinque anni fa insieme alla moglie Barbara ha deciso di aprire a Kathmandu una casa-famiglia per orfani, dove ospitano e fanno studiare 25 bambini. Si chiama “Sanonani”, che in nepalese significa “piccolo bambino”, ed è un modo per Barbara e Marco di restituire e di costruire un’occasione di futuro. Ci lavorano un’assistente sociale, una psicologa, due maestre, il cuoco e sua moglie, che fa la tutor per i più piccoli.

I bambini ospitati nella casa-famiglia “Sanonani”, aperta da Marco Camandona e dalla moglie Barbara a Kathmandu

«Oggi – spiega Marco – il Nepal è completamente chiuso e l’aeroporto fermo: è tecnicamente impossibile arrivare. Il Paese è spaventato perché non ha strutture mediche, ha una popolazione longeva, per cui ci sono molti anziani, e le famiglie vivono in spazi molto ristretti con grande assembramento sociale. Dopo aver chiuso tutto, insieme alla Cina, avevano provato a riaprire i confini in nome del turismo, mandando un messaggio al mondo: “Tornate a trovarci”. È bastato che rientrassero pochi nepalesi dall’India e dall’Europa per diffondere il contagio, così tutto è stato nuovamente e drasticamente richiuso.

Un danno spaventoso per il Nepal, tutta l’economia locale delle vallate si basa sui trekking, non significa solo guide, trasporti, cibo, ma anche che molte famiglie vivono affittando una stanza a chi fa i percorsi a piedi. Il lavoro che dobbiamo fare per il futuro non è quello di limitare il turismo, perché significherebbe affamare un popolo, ma è culturale. È più importante aiutarli a capire l’importanza di preservare il loro ambiente. Quante volte ho visto ragazzi nepalesi scaricare nei fiumi quei carichi di rifiuti, prodotti dai turisti in alta quota, che avrebbero dovuto trasportare sulle spalle fino a fondo valle. Succedeva anche in Valle d’Aosta 50 anni fa. Il nostro contributo dev’essere lavorare su istruzione, servizi e sostenibilità».

Marco doveva tornare proprio in questi giorni sul K2, dove era stato esattamente 20 anni fa: «Allora eravamo in tre, arrivammo in vetta che era quasi sera, non avevamo nessuno davanti e nessuno dietro, con l’ultima luce: l’ombra triangolare si rifletteva sul Broad Peak che si trova esattamente di fronte. Un’immagine che non scorderò mai. Quando un bambino disegna la montagna perfetta, allora disegna il K2 o il Cervino, che sono due piramidi esatte».

La foto scattata da Marco 20 anni fa, quando è salito sul K2: l’ombra della vetta perfettamente piramidale si riflette sul Broad Peak, il monte che sta di fronte

«Questa volta volevo scendere dal K2 per salire sul Broad Peak, tra i due campi-base ci sono solo tre ore di cammino, li avrei affrontati in sequenza e invece ti rispondo mentre sono dal fisioterapista». Doveva essere sul tetto del mondo ma è ancora bloccato in casa, anche se non è più colpa della quarantena: «Appena ci hanno dato il permesso di uscire e di tornare ad allenarci, mi sono messo a correre per ritrovare la forma, una corsa in montagna di tre ore con duemila metri di dislivello per sfogare tutta l’energia di questo tempo sospeso. Arrivato in discesa, sono caduto: frattura alla testa dell’omero. Operato d’urgenza. Uno ne fa di cotte e di crude in giro per il mondo e poi arriva uno stupido incidente vicino a casa e si deve di nuovo fermare. Non era l’anno, bisogna farci pace».

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