Se si è molto piccoli, se si vive incastrati lassù sopra la cascata, se il clima ti obbliga a stare sempre con il fiato sospeso, se per un secolo hanno pensato che la tua minuscola valle servisse solo a produrre energia per illuminare le città, allora per farsi notare è indispensabile avere molta fantasia e molto coraggio. Provare a immaginare ciò che non è immaginabile: salvare la neve, conservarla per tutta la primavera e l’estate, proteggerla con cura per essere i primi, già in autunno, ad avere un piccolo anello per lo sci di fondo. Un luogo unico dove gli atleti possano allenarsi quando intorno è ancora tutto prato.
Questo angolo di paradiso si chiama Val Formazza, sta dove l’Italia si incastra nella Svizzera, è famosa per un formaggio – il Bettelmatt – figlio di alpeggi con un’erba speciale e ha una cultura antichissima, quella dei popoli walser che non si facevano spaventare dalla barriera delle montagne e vivevano a cavallo dell’arco alpino. Ottocento anni fa colonizzarono le terre alte intorno al Monte Rosa e arrivarono anche su questo versante. In questo luogo estremo, per bellezza, silenzio e natura, abita un visionario di nome Gianluca Barp. Ha una bella barba che lo protegge dal vento, viene da altre montagne, quelle venete: è nato a Belluno 44 anni fa e lo ha portato qui l’amore per il formaggio, ma c’è rimasto per un altro amore, quello per Francesca.
Quando aveva 23 anni, infatti, Gianluca si mise in testa di imparare l’arte casearia, trovò una scuola a Lodi, ma non aveva i soldi per la retta. Così arrivò a Riale, in cima alla Val Formazza, dove cercavano braccia forti per allargare la galleria del metanodotto che dall’Olanda scende in Italia. Un giorno, rientrando dal cantiere, incontrò Francesca Sormani che aveva scelto di lasciare la sua valle per studiare Economia del turismo a Bologna. Era tornata a Riale spinta dalla nostalgia della sua montagna: voleva ristrutturare un cascinale walser e aprire, insieme al fratello Matteo, una locanda con cucina. Gianluca e Francesca si innamorarono in fretta, lui continuò a spaccare le pietre, andò a scuola a Lodi, ma poi tornò in valle a fare il formaggio e a immaginare una vita ad alta quota. Per sperimentare il loro affiatamento partirono per un viaggio di due mesi in Patagonia. La cosa funzionò e vent’anni dopo sono ancora qui, sposati con un figlio di dieci anni.
Insieme capirono che la valle, che per tutto il secolo scorso è stata identificata con le numerose centrali elettriche costruite sulle sue montagne, doveva rinascere dalle proprie tradizioni, valorizzando la storia e la natura, ma aggiungendo lo sport e l’accoglienza. Così Gianluca prese in gestione il centro dello sci di fondo e il piccolo albergo che c’è all’inizio delle piste, poche centinaia di metri sopra la Cascata del Toce, una delle più spettacolari d’Europa. Per farsi notare e portare sull’anello di 12 chilometri le squadre di professionisti e non solo gli sciatori della domenica non basta un panorama mozzafiato, c’è bisogno di garantire qualcosa di speciale. Così due anni fa, prima di Natale, Gianluca ha cominciato a mettere via la neve, ad accumularla per i tempi di magra.
Ad ogni grande nevicata ha alimentato il mucchio, che è diventato sempre più grande. Poi a maggio del 2019 ha coperto tutto con il cippato: «È una biomassa che fa da isolante termico e permette di conservare la neve». Il primo esperimento, però, non è andato tanto bene: «Durante l’estate ne ho persa più di metà, ma bisogna sbagliare per imparare. Così questa volta ho cambiato zona dove mettere il mucchio di neve, ancora più in ombra, in un posto riparato dal Sole della sera: il tramonto in alta quota è il vero problema. Poi ho sostituito il cippato con dei teli geotermici, più facili da usare per coprire e scoprire». In questo modo è riuscito a mettere via 4.000 metri cubi, con cui il mese scorso ha potuto allestire due chilometri di pista. «Sono quelli che occorrono a inizio stagione, basta fare un percorso tecnico, con sali e scendi, così gli atleti possono cominciare ad allenarsi. Basterebbero anche solo cento metri per mettere gli sci ai piedi».
L’idea di conservare la neve è nata nei paesi dell’estremo Nord, gli svedesi e i norvegesi hanno iniziato a farlo trent’anni fa, per lo sci di fondo e per proteggere il loro ambiente e la loro tradizione. In Italia lo fanno da anni a Livigno e, in Svizzera, a Davos: «Per me sono dei giganti e degli esempi, ma in ogni posto la situazione è diversa. Loro usano biomasse sotto forma di segatura, io invece sono un pioniere dei teli, li prendo da un’azienda svizzera che si sta specializzando nella conservazione dei ghiacciai, per salvarli. Sono teli che contengono delle fibre di alluminio, sono riflettenti, io ho aggiunto anche strati di una specie di ovatta che permette a questo guscio di imprigionare il freddo».
Salvare la neve è una cosa che coinvolge tutto il paese, una festa per i bambini dello Sci Club e un’occasione per tutti, per rilanciare il turismo anche nel tempo della pandemia. Grazie alla neve dello scorso anno ora è pronto un anello da cinque chilometri, dove il 18, il 19 e il 20 dicembre si terranno le gare di Coppa Europa di Fondo, la Opa Cup. Quella italiana è l’unica tappa confermata insieme alla Svizzera dove si gareggia domenica. Parteciperanno gli atleti di dieci nazioni, un tentativo di resistenza in un momento di sconforto totale.
Il prossimo anno Gianluca vuole coprire la neve già ad aprile e metterne via il doppio, la sua sfida contro il climate change è solo all’inizio, la passione è più grande degli ostacoli. Anche se, come ammette a bassa voce: «Io non so sciare, non so fare il fondo, quando metto gli sci faccio ridere, la mia soddisfazione è veder scivolare mio figlio Pietro sulla prima neve».