C’è sempre un momento in cui si tirano le somme, si contano le vittime, si fanno comunicati ufficiali e si spegne la luce. «Per me, che per anni ho fotografato in mezzo alla tempesta, è quello il momento in cui inizia il mio lavoro, che si tratti di un incendio, una guerra o uno tsunami». Per Paolo Pellegrin accendere la luce significa testimoniare le conseguenze, mostrare le macerie e le ferite, raccontare le vite segnate. Per questo il più importante fotogiornalista italiano tornerà a Gaza.
Nell’operazione “Guardiano delle Mura” lanciata da Israele, dopo settimane di scontri a bassa intensità, in risposta ai lanci di razzi palestinesi da Gaza sono morti, secondo i bilanci ufficiali, 12 israeliani e 227 palestinesi. Queste le cifre diffuse dopo la tregua. Gli occhi di Paolo però vanno su un altro numero, che sta sempre in fondo ai comunicati, quello dei feriti. A Gaza sono 1900.
«Negli anni, concluso il tempo delle news, ho cominciato a prestare attenzione ai paesaggi distrutti, alle macerie e a tutti quei feriti. Mi sono reso conto dell’enormità di un fenomeno quasi invisibile. Finita la fase calda c’è sempre la tregua, si fa la conta dei morti e poi gli occhi del mondo corrono a posarsi da un’altra parte. In realtà rimangono migliaia di persone per cui il peggio comincia proprio quando tutto finisce. Ci sono i feriti israeliani e quelli palestinesi ma i numeri del fenomeno non sono comparabili e in un luogo come Gaza, dove manca tutto, medicine, anestetici, cure degne di questo nome e dove è praticamente impossibile uscire, queste ferite diventano condanne a vita. Mi sforzo di vedere le ragioni e i diritti di tutti, ma non riesco a non vedere l’asimmetria dello scontro, quanto sia impari».
Per questo Paolo Pellegrin, tredici anni fa, ha cominciato a raccogliere ritratti e storie, per farne un documento, una sorta di catalogo di esistenze violate, di diritti dimenticati, un lavoro commovente e straordinario che aggiorna nel tempo.
Questa storia comincia nel 1978, quando Paolo ha 14 anni e sua madre Luciana, che si occupava di architettura e restauro, decide di portarlo con lei ad Acri per aiutarla nel suo lavoro di studio sugli insediamenti medioevali. L’antica San Giovanni D’Acri, porto principale dei Crociati in Palestina, fu la prima tappa. «Io ero un adolescente e lei, che stava preparando un libro sull’architettura crociata, mi diede il mio primo incarico e mi chiese di essere il suo fotografo. La accompagnai in giro per Israele, nei territori palestinesi, in Siria e in Egitto. Fu l’inizio del mio amore per il Medio Oriente». Negli ultimi trent’anni ci è tornato decine di volte, ha respirato l’aria della Storia, quando la pace sembrava possibile, quando erano ancora vivi Yitzhak Rabin e Yasser Arafat, e ha raccontato tutti i punti di vista.
«Lavoravo per Newsweek, facevo base a Gerusalemme, un luogo in cui senti che ci sono tutte le radici della nostra civiltà e un senso di spiritualità fortissima, e mi spostavo in continuazione da un mondo all’altro, da quella Miami sul Mediterraneo che è Tel Aviv a Ramallah, da Gaza ai kibbutz nel deserto». Nel 2001 per il New York Times passò alcune settimane con un gruppo di riservisti di un’unità speciale israeliana. «Erano i giorni della Seconda Intifada e io entrai con loro in Cisgiordania, dove rimanemmo una quindicina di giorni. È stata un’esperienza molto intensa, erano militari di trenta e quarant’anni, con un lavoro e con famiglie che li aspettavano a casa. Erano soldati formidabili ma avevano dubbi e continue discussioni su quello che stavano facendo». L’anno dopo visse un intero Ramadam alla Mukataa, il quartier generale di Arafat, cenando ogni sera con lui e tutto il suo staff. Poi cominciò a lavorare a Gaza, dove ha raccontato i tunnel sotterranei, gli attentati e i diversi interventi israeliani, da “Piombo Fuso” a “Margine Protettivo”.
«È stato allora che ho sentito il dovere di raccontare le vite invisibili dei feriti, persone che a causa delle schegge delle granate hanno perso la vista, le gambe, le braccia. Sono esistenze spezzate, molto spesso di bambini e ragazzi che non hanno un futuro».
Paolo si è chiesto a lungo come fotografare queste persone, perché è innegabile che ci sia un tema etico, ha scelto di farlo nel modo più asciutto e semplice possibile: «All’inizio mi sentivo quasi in colpa, ma sono stati molti quelli che mi hanno invitato a farlo, perché la loro storia fosse conosciuta e documentata». Era importante però inserire ogni ritratto nel contesto corretto: «Dopo ogni foto mi fermavo a lungo a intervistarli per farmi spiegare cosa stavano facendo quando vennero colpiti, dove andavano, con chi erano, chi avevano perso, per ricostruire il momento esatto e avere elementi della loro vita. Un lavoro di documentazione il più completo possibile, dove la fotografia non è protagonista ma documento».
Fino ad oggi Paolo ha raccolto più di cento storie, che nelle sue mostre vengono esposte separatamente in una stanza a parte (è in corso una grande retrospettiva del suo lavoro alla Reggia di Venaria a Torino fino al 20 giugno http://www.lavenaria.it/it/mostre/paolo-pellegrin ) ma il lavoro non è finito e forse non lo sarà mai. «Per me la storia è tornare. È l’essenziale funzione del giornalismo e del fotogiornalismo: creare documenti, testimoniare, chiedere conto di ciò che accade, mostrare le conseguenze, affinché le vite spezzate almeno non siano dimenticate».
Chiedo a Paolo se ci sia stata una persona che lo ha colpito più di altre, se ci sia una storia che non può dimenticare: «Sono tutte uniche e sconvolgenti, ma c’è una bambina che faceva parte di una grande famiglia, il clan Samouni di Gaza, che venne sterminato nel gennaio del 2009, che ricorderò per sempre». I morti totali di un’operazione israeliana piena di aspetti non chiariti furono 49: «Lei era una delle poche sopravvissute, la ricordo gentilissima, ospitale, con un volto bellissimo e uno sguardo per me incancellabile. Uno sguardo per me incancellabile. Lo sguardo di una persona che aveva già visto, vissuto e subito tutto il male del mondo».