Per più di un quarto della sua vita Shorsh è rimasto sospeso, in attesa, inchiodato al tempo presente e all’impossibilità di immaginare un futuro. Tutto cominciò quella notte in cui, appena compiuti 29 anni, per fuggire dalla paura si incamminò a piedi verso il confine con la Turchia. Non sapeva che quei passi lo avrebbero portato in un limbo che avrebbe segnato i dieci anni successivi. L’avventura umana di Shorsh ha un lieto fine che coincide con il momento in cui, aprendo la finestra la mattina, è tornato a vedere le montagne. Non quelle brulle di Bukan, la città dell’Azarbaijan iraniano dove è nato, ma quelle innevate delle Alpi.
La storia di Shorsh ci racconta come dietro definizioni come “rifugiati” o “richiedenti asilo”, parole stravolte e deturpate nelle polemiche politiche, ci siano migliaia di vite, una diversa dall’altra, e tantissime mani invisibili che ogni giorno lavorano per rammendare esistenze e costruire futuro.
Shorsh è nato nel 1979, l’anno della rivoluzione, della cacciata dello Scià e della nascita della repubblica islamica. Appartiene all’etnia curda, ha gli occhi verdi, uno sguardo profondo e malinconico e una laurea come ingegnere civile. Da ragazzo si era avvicinato al partito socialista diventando un attivista politico. La sua militanza però era diventata un problema agli occhi dei “Guardiani della rivoluzione”, un problema per lui, per i suoi genitori, per i suoi due fratelli e le sue due sorelle. Uno di quei problemi che lo facevano vivere nella paura, nel pericolo costante di essere controllato, fermato, incarcerato, nonostante fosse un ingegnere, avesse un lavoro e nessun problema con la giustizia.
Per questo decise di scappare, voleva arrivare a Oslo in Norvegia, dove vivevano degli amici e dei lontani parenti. Era il 2009. Attraversò le montagne a piedi e riuscì ad entrare in Turchia, quelli furono i giorni più pericolosi, sapeva che se fosse stato fermato dai soldati o dalla polizia sarebbe stato rispedito indietro e arrestato.
Un trafficante di uomini gli spiegò che il varco per entrare in Europa era l’Italia, gli vendette a caro prezzo un falso passaporto bulgaro e un biglietto aereo con destinazione Orio al Serio. Si imbarcò con un altro ragazzo curdo iraniano, conosciuto durante il viaggio, e insieme arrivarono a Milano. Comprarono due biglietti del treno per Parigi ma al confine la polizia di frontiera francese li fermò, perché capì che i passaporti erano falsi, e li rispedì indietro, a Torino. Lì Shorsh venne identificato, le sue impronte digitali furono schedate e gli fu consegnato un foglio di via in cui c’era scritto che aveva due giorni di tempo per lasciare l’Italia. Comprò un nuovo biglietto del treno, ma questa volta passò dalla Liguria e al valico di Ventimiglia nessuno lo controllò. Così arrivò a Parigi, poi a Bruxelles, in Germania, Danimarca, Svezia e Norvegia. A Oslo finì in un centro d’accoglienza, ci rimase diciotto mesi e poi gli dissero che doveva tornare in Italia perché era nel nostro Paese che era stato identificato la prima volta, come testimoniava la banca dati delle impronte digitali.
Fece richiesta di asilo politico e, aspettando la risposta del Tribunale, andò ad abitare a casa di un amico e cominciò a lavorare, prima in un supermercato dove rimase due anni, poi in un ristorante per cinque. Entrò come lavapiatti e salì tutti i gradini fino a diventarne lo chef. Attese per quasi otto anni di conoscere il suo destino, poi, alla fine del 2017 gli venne rifiutato l’asilo e i norvegesi lo rimandarono a Bergamo, la sua casella di partenza. Questa volta il ragazzo che atterrò ad Orio al Serio aveva i capelli grigi.
Si presentò alla Polizia per fare richiesta d’asilo e dopo novanta giorni venne mandato al centro d’accoglienza di Monza. Ci rimase due anni e mezzo e qui le cose cominciarono a prendere una direzione diversa. Seguì un corso e imparò l’italiano, cominciò a fare il volontario in una biblioteca, poi venne mandato a fare un tirocinio alla Procura di Monza: doveva scansionare i vecchi fascicoli processuali per costruire l’archivio digitale. Finalmente ebbe la sensazione di essere utile.
A ottobre del 2019, poco dopo aver compiuto quarant’anni, venne convocato in Prefettura dove gli comunicarono che aveva ottenuto l’asilo, avrebbe avuto un documento e un permesso di soggiorno. Forse stava per iniziare davvero una nuova vita. Aveva fame di rimettersi in gioco, gli parlarono di un bando dal nome strano – Powercoders – per entrare in un corso gratuito di programmazione informatica per rifugiati, seppe che c’erano solo venti posti ma, forte anche della sua laurea in ingegneria, riuscì ad entrare. Il corso cominciò alla fine di gennaio del 2020 a Torino, Shorsh era uno dei più grandi della classe, la metà dei suoi compagni aveva meno di 25 anni, dieci erano diplomati, cinque laureati come lui e quattro avevano addirittura un master. Erano di dodici nazionalità, venivano da Siria, Libia, Iran, Pakistan, Afghanistan e da vari paesi africani.
Era la prima volta che si tentava qualcosa del genere in Italia. Il progetto è nato in Svizzera nel 2017 e in Italia è arrivato grazie a Reale Foundation, la fondazione di Reale Mutua che l’ha adottato e lo sostiene economicamente insieme a Fondazione Italiana Accenture. L’idea, come mi racconta Virginia Antonini, che si occupa dei progetti di sostenibilità e della comunicazione di Reale, è quella di offrire tre mesi di apprendimento intensivo di programmazione web, seguiti da un tirocinio di sei mesi, per dare un’occasione di ripartenza a ragazzi di talento e per offrire una risposta al bisogno di capacità informatiche delle aziende italiane.
Un mese dopo l’inizio del corso nella vita di Shorsh, come in quella di ognuno di noi, è arrivato qualcosa di inatteso che ha rischiato di cancellare il sogno di ricominciare. Ma nonostante la pandemia il corso non si è fermato e all’inizio di aprile Shorsh ha firmato un contratto di lavoro a tempo indeterminato – come sedici dei suoi compagni di classe – il primo della sua seconda vita.
Adesso sta cercando casa a Torino: qui vive solo e non ha amici, ma ha capito che può chiamare casa la prima capitale d’Italia: «Ci sono quattro stagioni come in Iran, non due come in Norvegia, l’inverno bianco e l’inverno verde, vedo le montagne all’orizzonte e la domenica posso camminare lungo il fiume come facevo da bambino con i miei genitori».
Il prezzo di solitudine, di incertezza, di instabilità che Shorsh ha pagato alla sua scelta di partire è stato grande, si è mangiato i suoi trent’anni e ha lasciato nella sua voce e nei suoi modi un tono estremamente serio e prudente ma prima di salutarmi si lascia andare: «È stata lunga, dura e pericolosa, ma adesso vedo il futuro, posso immaginarlo, provare a costruirlo e forse, un giorno, riuscirò anche a prendere un biglietto per l’Armenia o per l’Iraq e, almeno per una volta, riabbracciare i miei genitori e i miei fratelli».