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18 Dicembre 2023

Nel punto più vicino a Greta

Quando sua figlia è morta, tutto il mondo di Andrea si è spento. Una sola cosa ha continuato a fare: correre. Perché la fatica lo aiutava, perché nella corsa la sentiva vicina. Quest’anno è andato a correre per beneficenza sull’Himalaya, vicinissimo al cielo. Lì si è chiusa una fase della vita. E se ne è aperta un’altra
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«È stato nell’anno in cui è nata Greta che ho cominciato a correre le ultramaratone. Tre anni prima, la sera di quel Capodanno che ci avrebbe portati nel nuovo millennio, avevo fatto anch’io il mio proposito speciale: correre per la prima volta la maratona di New York. Al primo colpo ce l’ho fatta in meno di quattro ore e, con mio grande stupore, non ero nemmeno stanco: avevo 47 anni, ma ero una persona molto sportiva. Ho riprovato a Milano e il tempo è sceso a 3h 26’, e anche questa volta non ho sentito troppa fatica. “Forse sono più adatto a fare gare molto lunghe dove conta la resistenza” pensai e cominciai con le ultramaratone, le gare sopra i 42 chilometri». Così in quel 2003 in cui sarebbe diventato padre corse “La maratona delle sabbie”, sei giorni nel deserto del Marocco. Andrea non poteva immaginare che tutta quella fatica sarebbe diventata una salvezza nel momento più difficile della sua vita.

Andrea Chiaravalli corre le ultramaratone dal 2003, l’anno in cui è nata sua figlia Greta

Andrea ripeté l’esperienza in Giordania, poi in Libia, sempre nei deserti, finché il suo sguardo non tornò a quelle montagne in cui era stato ufficiale degli Alpini. Nel 2012 era riuscito ad avere un pettorale per correre la maratona del Monte Bianco: un sogno che durò pochi giorni. 

«Avevo portato Greta a sciare. Aveva 8 anni ed era una bambina molto sveglia, ma quella mattina non riusciva bene a prendere lo skilift. Mi sembrava svogliata e l’ho sgridata chiedendole di impegnarsi un po’. Due mesi dopo stavamo uscendo per andare a mangiare la sua pizza preferita quando ha cominciato a parlare in modo strano, e i suoi occhi a stortarsi. Invece che in pizzeria l’abbiamo portata al pronto soccorso dei bambini. La prima diagnosi parlava di un morbo che blocca i muscoli della faccia, ma una dottoressa non era convinta: voleva fare una risonanza. Sono entrati e usciti un sacco di medici dalla stanza, parlavano, discutevano, poi hanno chiamato soltanto me. Mia moglie Clara era rimasta con Greta. Non hanno usato giri di parole: “Purtroppo sua figlia ha un tumore al cervello. Si può provare a operare. Veda lei come dirlo a sua moglie”».
Sono passati undici anni da quel giorno, ma mentre Andrea me lo racconta guarda nel vuoto e si tormenta le mani: «Sono uscito e ho detto soltanto che era necessario un ricovero per fare altri accertamenti e che sarei andato a casa a prendere il pigiama e tutto quello che serviva. Avevo bisogno di un po’ di tempo per capire come spiegarlo a Clara. Ho chiamato mia sorella per chiederle di raggiungerci e mentre tornavo in ospedale in motorino mi sono preparato le parole: “Sembra una cosa molto grave ma dicono che si può operare o curare”».


Correndo tra le montagne: un disegno a penna che Greta a cinque anni ha dedicato a suo padre

In realtà due giorni dopo la diagnosi cambiò: “Glioma del ponte” una neoplasia pediatrica che colpisce il sistema nervoso centrale che sta alla base del cervello, la centralina che regola le funzioni vitali. In Italia ne vengono diagnosticati una trentina di casi all’anno. «La nuova realtà è che non si poteva operare, ma provare una radioterapia molto invasiva e una chemio sperimentale. Per questi tentativi ci trasferirono al reparto pediatrico dell’Istituto Nazionale dei Tumori. Non ci davamo pace e cominciammo a chiamare chirurghi a Boston, Parigi, New York, Tel Aviv. Spedivo a tutti il dischetto della sua risonanza, ma la risposta era sempre la stessa. Intanto Greta peggiorava e aveva dolori sempre più forti alla testa». 

Per farle la radioterapia le crearono una maschera in carbonio che aveva solo un buchino dove far passare i raggi con precisione: «Ancora oggi sto male a pensare a quella terapia ripetuta trenta volte in cui la sua faccia era chiusa al buio nella maschera. Servì a fermare momentaneamente il tumore, ma non risolse nulla. In estate la rimandarono a casa, era allegra, la portammo in Liguria e ripeteva sempre che voleva correre con me, me lo diceva fin da bambina. Ormai era su una carrozzina ma io la spingevo su e giù dalle salite, e lei rideva. A ottobre facemmo la festa dei suoi nove anni. Era contenta».

Cosa si dice a una bambina che ha un tumore e cosa sapeva Greta? «Ai bambini non puoi dire la verità, li devi rassicurare, noi le ripetevamo che sarebbe guarita e lei era sicura al cento per cento. Si fidava di noi e fino all’ultimo ha avuto speranza: continuava a chiedere di tornare a scuola e di fare quel viaggio in India di cui avevamo fantasticato molto».

Greta è mancata il 27 novembre di quello stesso anno. Andrea aveva imparato a farle le iniezioni, di ogni tipo, fino alla morfina. «Ho capito che una di quelle sarebbe stata l’ultima. Poi me la sono tenuta in braccio fino alla fine».

26.000 metri con GRETA è la raccolta fondi organizzata da Vidas e Andrea Chiaravalli. Il ricavato verrà destinato all’hospice Casa Sollievo Bimbi, il primo hospice pediatrico della Lombardia

Il dopo è un vuoto immenso, un dolore che non riesco nemmeno a immaginare per quel lutto senza un nome, contro natura.  

«Ero così triste che mi era passata la voglia di fare ogni cosa. Ero appassionato di moto, ne avevo alcune, ma le ho vendute tutte, figurarsi se potevano avere ancora un senso». Ad una cosa però Andrea non ha rinunciato: a correre.

«Quando Greta è mancata ho trovato quel disegno che aveva fatto a cinque anni, in cui ci sono io che corro in montagna, lei mi vedeva così e quest’anno ho colorato di rosso il cuoricino che aveva messo in vetta». 

Così si è rimesso a correre. Corse sempre più lunghe. Il suo medico gli ha consigliato di lasciar perdere, gli ha detto che doveva pensare alle cartilagini, che avrebbe avuto una vecchiaia piena di problemi e dolori. Allora Andrea ha pensato a suo padre che era morto a soli 55 anni, anche lui di tumore, e ha deciso che avrebbe continuato.  

«Ho tenuto la corsa per il silenzio, perché ti mette in contatto con te stesso, con le cose importanti della vita. E corro perché lì la sento. E allora le dico: “Greta, corriamo insieme”».

Dopo aver pronunciato queste parole, Andrea si ferma, mi guarda negli occhi e si sente quasi in dovere di giustificarsi: «Io sono una persona razionale, con i piedi per terra e forse non sarà così, forse Greta non corre con me, ma perché negarmi questa sensazione e questa possibilità?».

Da allora ha portato a termine 22 ultramaratone, e deve aver realizzato che forse la fatica serve a elaborare il dolore. In una sola ha fallito tre volte, non è mai riuscito ad arrivare al traguardo: quella del Monte Bianco. Proprio quella.

Quest’anno Andrea ha compiuto sessant’anni e ha deciso di fare un’ultima corsa, la cosa per lui più estrema: l’Everest Trail Race. Una gara solitaria di 170 km in 6 tappe con 26mila metri di dislivello. L’organizzazione ti assicura solo la colazione, la cena e una tendina per dormire, tutto il resto – sacco a pelo, cibo, tuta, guanti, torcia – te lo devi portare sulle spalle nello zaino.

Andrea Chiaravalli durante l’Everest Trail Race, la corsa a cui ha partecipato per sostenere l’associazione Vidas

«Ho deciso di farlo per raccogliere fondi per l’associazione Vidas, che offre cure e assistenza ai malati che non possono più guarire. Quando Greta è tornata a casa ci hanno seguito senza sosta, ogni giorno passavano da noi un oncologo o un’infermiera. Se avevamo bisogno, arrivavano in 20 minuti. Nel 2015 poi è nata a Milano la Casa Sollievo Bimbi, il primo hospice pediatrico della Lombardia. Un posto molto triste ma molto bello, che assicura dignità e accoglienza al massimo livello».

Andrea si era dato l’obiettivo di raccogliere 26mila euro, tanti quanti i metri di dislivello, ma è arrivato a 95mila (e la raccolta è ancora aperta). 

«È stata un’esperienza durissima, sempre sopra i 3.400 metri d’altezza, si dormiva malissimo, di notte la temperatura andava 9 gradi sotto zero. Dal secondo giorno ogni cosa era bagnata, per la pioggia, il sudore, i guadi e niente si è più asciugato perché di notte ghiacciava. La sveglia era alle 4 e la fatica tantissima, ma è stata una cosa unica e irripetibile. L’idea era quella di andare in un luogo remoto del mondo, dove non prende nemmeno il telefono, dove sarei stato completamente solo, ma con lei. Nel posto più alto dove potessi andare a correre, vicino al cielo, dove potevo immaginarmi più vicino a Greta».

Una veduta dal monte Everest dove Andrea Chiaravalli ha fatto la sua ultima corsa 

Prima di partire Andrea ha deciso che quella sarebbe stata l’ultima grande corsa: «La nostra figlia maggiore, Marta, che ora ha 32 anni e quando ha perso sua sorella stava studiando medicina e ha scelto di fare l’oncologa, mi ha detto che era incinta. Allora ho pensato che la vita continua, che nasce un’altra storia, e che mi sarei fermato». Ma prima doveva arrivare lassù: «Dopo 100 km di corsa mi sono trovato davanti l’Everest e mi sono messo a piangere. Non era disperazione e nemmeno gioia, era perché avevo trovato quello che cercavo».

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