16 Luglio 2020

Un anno in più per inseguire un sogno

Dopo aver vinto quattro medaglie tra Rio de Janeiro e Londra, Niccolò Campriani ha appeso la carabina al chiodo. Anzi, al museo. Ora vive il tiro a segno da allenatore di ragazzi rifugiati che ce la mettono tutta per arrivare ai Giochi di Tokyo. Perché l’importante, dice, è innamorarsi del percorso e non del risultato
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Il rinvio delle Olimpiadi può essere un’occasione inaspettata, il regalo di un tempo supplementare per organizzarsi e costruire un miracolo. Anche per Luna, diventata mamma a febbraio, che si era rassegnata a rinunciare al grande sogno ma ora può ripartire. «Abbiamo guadagnato un anno di allenamento e di esperienza: lo scenario estremo in cui tutti ci siamo trovati a vivere per noi è decisamente favorevole, adesso abbiamo il doppio del tempo»: a parlare è Niccolò Campriani, vincitore di tre medaglie d’oro e una d’argento nel tiro a segno ai Giochi olimpici di Londra e Rio, che dopo aver abbandonato le competizioni e aver regalato la sua carabina da record al Museo olimpico, si è inventato una nuova avventura come allenatore. Quel “noi” racchiude tre vite oltre alla sua: quella di Mahdi, afghano, 23 anni, operaio in un’officina meccanica; Khaoula, 31 anni, fuggita dalla Siria, studia Lingue e ha un bambino; Luna, eritrea, 26 anni, insegnante alla scuola elementare. Vivono tutti e tre in Svizzera, nel Cantone di Vaud, hanno in comune il fatto di essere rifugiati o richiedenti asilo e di voler partecipare alle Olimpiadi di Tokyo.

Niccolò Campriani, 32 anni, ex campione di tiro a segno (il primo a sinistra). Qui è con Khaoula (al suo fianco), Luna e Mahdi, le due ragazze rifugiate e il ragazzo richiedente asilo che sta allenando per le Olimpiadi

Nel 2016 a Rio de Janeiro per la prima volta scese in campo una squadra di atleti rifugiati, erano in dieci e gareggiarono in tre discipline: atletica, judo e nuoto. Quando Niccolò, che lavora a Losanna al Cio (Comitato olimpico internazionale), seppe che anche a Tokyo ci sarebbe stata una delegazione decise di fare la sua scommessa: sarebbe riuscito a portare ai Giochi due tiratori. Aveva un anno di tempo e cercava persone che non avessero mai sparato prima. Contattò l’ufficio immigrazione del Cantone dove vive e spiegò che cercava gente che nel dopo lavoro potesse allenarsi con lui. Potevano essere solo rifugiati in Svizzera perché è impossibile spostarli da altri Paesi. Preparò una locandina e cominciò a farla girare tra gli assistenti sociali, si fecero vivi una ventina di ragazzi, i colloqui per la prima selezione li fece al caffè della stazione, poi convocò al poligono i dieci che gli sembravano più motivati per fargli provare la carabina ad aria compressa. Prima però chiamò i suoi vecchi sponsor e li convinse a offrire attrezzature e materiali.

«Ricordo perfettamente quella mattina, non avevano idea di cosa fosse il tiro e la specialità dei 10 metri. Io potevo solo capire chi non fosse proprio portato. Dovevo selezionare un ragazzo e una ragazza, quello era il budget, ma quella che avevo scelto – Khaoula – era mamma di un bebè di sei mesi, c’era il rischio che poi avesse altre priorità ma non mi sembrava proprio il caso di escluderla perché aveva avuto un bambino. Allora aggiunsi un’altra ragazza, Luna». A quel punto però erano a corto di una carabina, allora Niccolò ha scritto una mail al Museo olimpico e ha chiesto se potesse riavere indietro per un anno quella che aveva donato. Gliel’hanno restituita e così è partita l’avventura. «Ci alleniamo quattro volte alla settimana, voglio portarli al punteggio minimo necessario per la qualificazione olimpica, poi devono sperare di ricevere una card di partecipazione. Normalmente ci vogliono tre anni per raggiungere quel risultato e noi cercavamo di farlo in uno soltanto, ma ora abbiamo il doppio del tempo per allenarci e fare gare».

Un primo piano di Mahdi, 23 anni, afghano, e di Khaoula, 31 anni, siriana

Vivere con Khaoula, Luna e Mahdi è ogni giorno una scoperta per Niccolò, vede il mondo e la normalità con i loro occhi e tutto diventa eccezionale e anche magico: il primo volo aereo, la prima volta in hotel, la scoperta di nazioni nuove, di cibo sconosciuto. «Vivono nel presente e nel futuro, fanno molta fatica a parlare del loro passato, delle guerre da cui sono fuggiti, del viaggio per arrivare in Europa. Khaoula e Luna hanno lo status ufficiale di rifugiato, Mahdi no, è richiedente asilo, è nato in Afghanistan ma è scappato dall’Iran. Per semplificare le cose ho contattato l’ambasciata di Kabul e ho chiesto se potesse gareggiare sotto la loro bandiera. Dopo un momento di perplessità sono stati ben contenti di ritrovarsi un atleta che potrebbe andare alle Olimpiadi. Già ai campionati asiatici a Doha, dove ha raggiunto il punteggio per qualificarsi per Tokyo, ha rappresentato l’Afghanistan». L’allenatore Campriani non insegna ai suoi allievi solo le tecniche di tiro, ma anche quelle di rilassamento, meditazione e concentrazione e soprattutto che «la cosa più importante è il percorso, non il risultato finale».

I tre ragazzi con Campriani durante un allenamento

Niccolò ha solo 32 anni ma ha le idee chiarissime e racconta il suo percorso con una lucidità e una saggezza sorprendenti: «Le Olimpiadi sono una bellissima scusa per fare un percorso di vita che nella ipotesi minima dura quattro anni, è la fiamma che ti guida in quel tempo la cosa più bella. Le due settimane dei Giochi invece sono molto logoranti e faticose. Una finale olimpica è un attacco di panico controllato, non esiste allenamento capace di eliminare la paura e l’ansia. È come allenarsi per quattro anni in una piscina al chiuso e poi fare una gara in mezzo alle onde dell’oceano. Nell’allenamento del giorno prima della finale almeno 20 persone fanno il record del mondo, il giorno dopo se anche solo uno ci arriva vicino è già tanto. Eppure quando guardi dentro la diottra – il mirino del fucile – quello che vedi è sempre lo stesso, è quello che vedevo nel minuscolo poligono di Bibbiena, dove ho imparato, con il mio babbo alle spalle. Ma avere gli occhi del mondo addosso cambia tutto e più desideri il risultato e più ti sfugge via».

Gli chiedo come si possa sfuggire alla trappola del panico, soprattutto in uno sport di solitudine e precisione come il suo: «È impossibile ingannarsi, c’è una componente di subconscio che ti fregherà sempre, l’unica salvezza è fare una scelta di vita e innamorarsi del processo. Il vero bersaglio deve essere una sensazione fisica e mentale di equilibrio e armonia. Ti devi ripetere ogni giorno che medaglia e record non definiscono chi sei, quello lo devi sapere un attimo prima di salire sul podio. Se aspetti l’ultimo colpo per capire se sei un campione o un fallito, perché questa è la differenza agli occhi di tutti tra il primo e il quarto posto, allora auguri, diventa quasi impossibile riuscirci».

Una foto di Campriani da bambino con il padre Giuseppe, dopo la vittoria di una delle sue prime medaglie

Perché hai smesso a 28 anni, avresti potuto fare altre due o tre Olimpiadi, arrivare a 40 anni?
«Perché la passione era diventata ossessione e le quattro ore di allenamento quotidiane erano diventate dieci. L’errore più grande della mia carriera l’ho fatto quando, dopo 13 anni da atleta-studente che comprendono le medaglie di Londra, ho deciso che mi sarei concentrato solo sullo sport e i Giochi di Rio. Così ho rovinato tutto, ho perso brillantezza mentale, troppe ore passate a ripetere un gesto. Devi avere anche una identità fuori dallo sport, altrimenti diventa tutto molto complicato. A Londra ero fortissimo di testa e come persona, a Rio invece avevo 28 anni ma ero a fine carriera, perché avevo esaurito le energie». Lo interrompo: ma hai vinto due ori! «Ho vinto per esperienza e non ho tirato meglio, ho solo sbagliato meno degli altri. Poi ho tirato l’ultimo colpo e ho detto basta, lo avevo già deciso».

Ma dopo una vittoria così non viene voglia di continuare?
«Possibile, per questo mi ero fatto un appunto con tutti i motivi per cui avevo deciso di smettere. Lo avevo preparato per rileggerlo se avessi vinto».

E cosa hai fatto la mattina dopo?
«Ho donato la carabina al Museo olimpico, che è a 150 metri dalla casa dove vivo oggi, e ho cominciato a spedire curriculum. Sono laureato in Ingegneria manageriale negli Stati Uniti, l’ho potuta fare con una borsa di studio ottenuta grazie allo sport, e ho preso un master in Gran Bretagna. Ma i primi colloqui di lavoro sono stati una doccia fredda: passi da un mondo in cui sei venerato a un altro in cui non sei nessuno. Capisci in un attimo che hai vinto una gara sportiva e non ti è dovuto niente. Prima però avevo fatto domanda al Comitato olimpico internazionale a Losanna e mi chiamarono per una sostituzione di maternità, si trattava proprio dell’ufficio che si occupa della transizione degli ex olimpionici verso il mondo del lavoro, che offre supporto mentale e psicologico, perché la crisi e la perdita di identità possono essere fortissime. Oggi sono ancora lì, ma lavoro ai progetti speciali».

Ma torniamo ai tuoi ragazzi, alla tua squadra, cosa ti ha spinto?
«Una grande opportunità di restituire, ma anche di prendere posizione in un momento in cui è così difficile parlare di migranti e di rifugiati. Per me lo sport è il veicolo perfetto per parlare di integrazione, volevo dire la mia e mostrare che la vita di un atleta non finisce con l’ultimo colpo, l’ultimo metro o l’ultimo salto». In questi mesi anche Luna è diventata mamma, sarebbe stata fuori da Tokyo, ma con il rinvio rientra in gara e avrà un anno di tempo per qualificarsi e non perdere la grande occasione.

L’intervista è finita, ma mi rimane una stupida curiosità: ma se un campione olimpico di carabina ad aria compressa va a sparare al luna park, almeno lui riesce a portarsi a casa il peluche? «Certo che ci ho provato, trascinato dagli amici, ma il problema è che quei fucili sono deformati e non tirano due volte nello stesso punto. Allora devi correggere la mira, ma appena se ne accorgono ti mandano via. Nel mio caso si sono avvicinati, mi hanno restituito i soldi e mi hanno chiesto di andarmene. Senza peluche…».

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