5 Marzo 2020

Lorenzo Tugnoli, una giornata con i Talebani e il futuro di Kabul

Il fotografo italiano, finalista al World Press Photo con il suo reportage dall’Afghanistan, è entrato nel quartier generale dei guerriglieri islamici. Per raccontare un Paese che scivola nel passato
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«Appena ho ricevuto la notizia sono corso dal barbiere e gli ho detto di tagliarmi la barba e i capelli come fossi un afgano; poi mi sono vestito con lo shalwar kameez, il camicione tradizionale, ho messo la sciarpa e sono partito. Prima di incontrarli, la mia guida mi ha osservato per bene e mi ha messo in testa il pakol, il copricapo nazionale. Adesso ero perfetto. Loro parlavano pashtu e quando hanno visto che non li capivo hanno pensato fossi di Kabul, uno di quelli che parla solo il dari, il persiano. Nessuno ha nemmeno immaginato che potessi essere uno straniero, si sono lasciati fotografare e mi hanno invitato a mangiare con loro». Lorenzo Tugnoli, 40 anni, di Lugo di Romagna, una mattina presto all’inizio di dicembre ha superato l’ultimo posto di blocco della polizia afgana ed è entrato nel territorio dei Talebani, sulle montagne a Est di Kabul, nel distretto di Khogyani, al confine con il Pakistan.

Afghanistan, dicembre 2019. Guerriglieri talebani nel distretto di Khogyani. Al centro, Abdul Rahman, 20 anni: ha perso una mano disinnescando una bomba
©Lorenzo Tugnoli, The Washington Post, Contrasto

Tugnoli, insieme alla giornalista del “Washington Post” Susannah George, aveva ricevuto l’autorizzazione dai vertici militari talebani a raggiungere il loro quartier generale, tra le gole di montagna, per raccontarli. Una mossa dei guerriglieri islamici pensata per cercare una sorta di legittimità, per ripulirsi l’immagine nei giorni in cui decollava la trattativa di pace con gli Stati Uniti. Ora l’accordo, che prevede il ritiro completo dei soldati americani e la fine degli attacchi terroristici, è stato firmato in Qatar e Lorenzo Tugnoli, che lo scorso anno ha vinto il Pulitzer, è candidato al World Press Photo proprio per quel reportage.

Ho pensato che fosse la persona giusta con cui ragionare su questa guerra durata più di 18 anni, per parlare di un mondo che è stato sulle prime pagine dei giornali per anni e che oggi è stancamente dimenticato. Lorenzo in Afghanistan ci ha vissuto per più di cinque anni e anche adesso, che si è trasferito a Beirut, ci torna spesso. L’ho chiamato su WhatsApp e mi ha risposto da Kabul; la linea era perfetta, il suo accento romagnolo arrivava forte e chiaro e siamo rimasti al telefono per più di un’ora.

«Uno dei leader talebani, parlando con un giornalista americano con cui collaboro, ha detto con molta chiarezza: “Abbiamo vinto”. All’obiezione che hanno firmato un accordo di pace ha risposto: “Se hai un nemico e questo se ne va, allora significa che hai vinto”. Nessuno sa cosa succederà nei prossimi mesi, certo l’Occidente sarà felice di riportare a casa i soldati e di scordarsi in fretta di questo Paese. Donald Trump aveva promesso di chiudere la guerra più lunga della storia americana e questo ritiro gli serve in campagna elettorale.

Ora dovrebbero cominciare i colloqui tra il governo di Kabul e i Talebani, per farli entrare nel sistema politico e costruire la pace. Una cosa che sarebbe già difficilissima di per sé, ma a renderla quasi impossibile c’è il fatto che dopo cinque mesi di conteggi delle schede è stato rieletto il presidente Ashraf Ghani. Il suo sfidante Abdullah Abdullah, però, non ha accettato il verdetto e si è autoproclamato presidente. Così, tanti temono il ritorno della guerra civile di tutti contro tutti, come quando se ne andarono i russi nel 1989. Allora la guerra terminò soltanto quando i Talebani presero il controllo di tutto l’Afghanistan, tra il 1996 e il 2001. Speriamo che la storia non si ripeta».

L’idea che i Talebani facciano pubbliche relazioni e carichino un fotografo su un pick-up giapponese per farsi buona pubblicità non faceva parte degli scenari immaginabili. Che cosa volevano esattamente mostrare? «Volevano farci vedere il territorio che avevano ripreso allo Stato Islamico, spiegare che loro avevano combattuto i terroristi. Una carta fondamentale da mettere sul tavolo della pace con gli americani – e infatti ha funzionato – ma fondamentale anche per loro, per continuare a controllare le vie dei traffici di armi, droga e persone con il Pakistan».

Afghanistan, dicembre 2019. Un convoglio di combattenti talebani lungo una strada del distretto di Khogyani. Dai pick-up, sventolano la loro bandiera
©Lorenzo Tugnoli, The Washington Post, Contrasto

«Ero camuffato e questo doveva servire a evitare il primo rischio, di essere rapito. Ma quando siamo partiti con questo convoglio talebano formato da fuoristrada Toyota, con i vessilli al vento, allora il vero pericolo sono diventati i droni americani: eravamo parte di un target perfetto da colpire. Dopo ore di viaggio siamo arrivati al loro nascondiglio tra le montagne, un luogo talmente remoto che non prendeva nemmeno il telefono satellitare. Li ho osservati a lungo, volevano mostrare la loro forza, la loro resistenza. Mi hanno invitato a mangiare con loro intorno a un forno in cui avevano cucinato il pane, ma ho declinato, volevo usare tutto il tempo che avevo per scattare, non avrei avuto un’altra occasione del genere».

Guardare queste foto ci riporta indietro nel tempo, potrebbero essere state scattate 40 anni fa, quando i mujaheddin combattevano contro i russi. Penso alle foto che scattò allora Steve McCurry e che lo resero famoso. Una sola differenza salta agli occhi: le scarpe. All’epoca i combattenti avevano tutti i sandali, oggi scarpe da basket americane. «Sono rimasto molto colpito – spiega Lorenzo – dall’attenzione con cui curano il loro aspetto, esiste un’estetica talebana di cui uno degli elementi fondamentali sono appunto le scarpe bianche da basket degli anni Novanta. Me lo ha fatto notare tempo fa un militare in un bazar, mi ha indicato un ragazzo tra gli altri e ha detto: “Quello è un talebano, lo riconosci da quelle particolari scarpe bianche, marchio di fabbrica dei guerriglieri”».

La foto che Lorenzo ama di più non è stata scattata però quel giorno, ma fa parte di un lavoro sulle famiglie in fuga dalla guerra e dai bombardamenti. È l’immagine di una bambina di sette anni nel campo profughi Hossain Khalil, appena fuori Kabul, il suo volto spunta solo a metà dietro la tenda. Sembra indicarci il dilemma: questa futura donna resterà relegata in casa o varcherà la porta di quell’abitazione di fango?


Afghanistan, marzo 2019. Una bambina si affaccia dalla tenda della sua casa a Hussain Khail, campo profughi alla periferia di Kabul. A causa della guerra, è fuggita con la famiglia dal villaggio di Chardara, provincia di Kunduz
©Lorenzo Tugnoli, The Washington Post, Contrasto

«Quando si parla della condizione femminile in Afghanistan bisogna farlo con cautela e senza slogan: dopo il 2001 la situazione è certamente cambiata, le donne vanno all’università, lavorano, guidano, fanno politica. Ma questo succede solo a Kabul, nelle campagne la vita è la stessa di 20 anni fa, nulla si è mosso». Chiedo a Lorenzo se intenda che sono rinchiuse nel burka, mi risponde a bruciapelo: «Magari! Nel Sud e nell’Est, nei villaggi come nelle città del Sud, le donne proprio non si vedono, vivono chiuse in casa».

«Temo però che i cambiamenti più forti colpiranno l’informazione. Oggi l’Afghanistan è un Paese molto più libero di tutti i suoi vicini, dall’Iran al Pakistan alla Cina, i giornalisti sono voci critiche e presenti, c’è un dibattito politico vivace. Ho paura che tutto questo sia destinato a scomparire di nuovo».

Quando arrivò a Kabul nel 2009 la situazione faceva ben sperare: «Ci si poteva muovere per la città in modo abbastanza sicuro, era pieno di caffè e ristoranti. Ricordo il primo in cui sono entrato, si chiamava “Le Divan”, era un locale francese con piscina. Mi sembrava di essere entrato in un vecchio film di guerra: c’erano spie, giornalisti, faccendieri, personaggi equivoci. Al bar si discutevano i contratti per le forniture alle basi militari. Fuori le ragazze andavano a scuola e si erano tolte il burka. Cinque anni dopo si è rotto tutto. È successo quando gli americani hanno smesso di stare nelle strade, di combattere, e hanno limitato il loro ruolo all’addestramento delle truppe afgane e ai bombardamenti con i droni. Il sistema della sicurezza è crollato, i Talebani hanno rialzato la testa e hanno cominciato a riconquistare territorio.

Poi è arrivato anche l’Isis. Di quei caffè e ristoranti non ne esiste più nemmeno uno. Tutti sistematicamente distrutti. Uno alla volta. Sempre con la stessa dinamica: un kamikaze si fa saltare all’ingresso, così da eliminare le guardie che stanno alla porta, e poi i complici entrano e cominciano a sparare all’impazzata. Ogni spazio di socialità è stato cancellato».

I primi cinque anni di vita afgana di Lorenzo erano diventati un libro, “The little book of Kabul”, costruito insieme alla scrittrice Francesca Recchia, un libro per raccontare le realtà artistiche della città, da una scuola di pittura a un gruppo rock, da una disegnatrice di interni a una stilista. La sua testimonianza della vivacità della città che aveva conosciuto. Gli chiedo se sia tornato a trovare queste persone, cosa pensino loro dell’accordo di pace di Trump; la sua risposta è amara: «Non c’è più nessuno di loro, non esiste più nemmeno una di quelle attività. Se ne sono andati tutti, ognuno negli anni è scappato dove ha potuto».

Afghanistan, dicembre 2019. Lorenzo Tugnoli “embedded” con i Talebani. La foto è stata scattata dalla giornalista del “Washington Post”, Susannah George

Prima di salutarlo, mi resta una domanda: perché un ragazzo italiano che vuole fare il fotografo decide di andare a vivere in Afghanistan il giorno in cui compie 30 anni? «Ho studiato, fatto stage – il più bello agli archivi dell’agenzia Magnum – fatto l’assistente a numerosi fotografi, poi a 30 anni ho realizzato che dovevo provare a entrare nelle cose ripartendo dalla strada, da un luogo in cui ci si potesse misurare con la realtà. Ho scelto Kabul. C’erano molti lavori da fare per le agenzia internazionali, l’Onu, la cooperazione, e non erano molti i fotografi che stavano fissi qui. La mia scelta ha pagato e abbastanza in fretta sono diventato un professionista. A poco a poco sono entrato nella comunità dei giornalisti internazionali e così sono venute le prime collaborazioni fino ai lavori per il “Washington Post” e al Pulitzer per il mio lavoro in Yemen».

La telefonata è finita. Dopo un’ora mi manda una foto su WhatsApp, si vedono due Talebani sul ciglio di una strada sterrata tra le montagne: allargo l’immagine e vedo che uno è armato con due macchine fotografiche, allora capisco che il suo lavoro di travestimento è stato perfetto.

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