L’ultima volta che vidi mio padre, era l’ultimo giorno della sua vita, mi parlò di libri. Per un intero pomeriggio, seduto su un letto del Policlinico Gemelli, mi indicò i segreti e i tesori della sua biblioteca. Io ero tranquillo per l’intervento che avrebbe dovuto fare la mattina dopo ma lui, che evidentemente sentiva di essere in pericolo di vita, mi raccontò senza sosta dei libri che gli erano più cari e di dove dovessero finire. Non solo, prima di salutarmi, mi scrisse un appunto per orientarmi nel suo oceano cartaceo. Sono passati dieci anni e, in questo tempo, mi sono spesso chiesto perché mi avesse parlato dei suoi libri in quel modo: non aveva pensato di lasciare un testamento ma aveva voluto assicurarsi che la biblioteca non andasse perduta. Solo oggi ho capito perché.
«Bisogna liberare la casa entro tre settimane». Una telefonata improvvisa mi ha scaraventato con urgenza tra quegli scaffali carichi di volumi in doppia e tripla fila. Nell’ultimo mese, insieme a mio fratello, ho passato notti, albe, giornate intere tra scale e scatoloni per organizzare un piano, salvare quanto più possibile, non disperdere quel patrimonio di conoscenza e quella storia di famiglia che mi guardava dall’alto, dal basso, da dietro. In poche ore sono entrato in una nuova dimensione, a volte perdendo letteralmente l’orientamento, vagando tra una fila e l’altra, tra una poesia di Quasimodo ed un manuale di fisica del Politecnico, tra un saggio di Eco e un’avventura in dirigibile di Nobile. È stato qualcosa di travolgente e totalizzante: dodicimila volumi da guardare e di cui decidere il destino. Tutti quelli accumulati nella vita di mio nonno e in quella di mio padre: 30 metri lineari di libreria. Ci sono voluti sei viaggi di camion per traslocarli tutti.
Per oltre vent’anni avevo fatto avanti e indietro lungo quegli scaffali dandoli per scontati, prendendo ogni tanto un volume ma rimanendo molto più attratto dalle mie letture, dai miei libri. Quasi snobbando quelle opere, in quel difficile rapporto tra padre e figlio che nell’età dell’estremismo intellettuale dei giovani ti fa vedere tutto ciò che viene dalla famiglia e dalla tradizione come un peso, a volte un nemico della tua spinta verso la libertà. Ora invece ho riscoperto un mondo e le mie radici.
Questa è la storia di una biblioteca di famiglia, di un percorso di studi e conoscenza che è cominciato all’inizio del secolo a Tortolì, paesino dell’Ogliastra dove nacque mio nonno Rafaele. Mio padre mi parlava spesso di lui, descrivendomelo come un infaticabile lettore, un curiosissimo divoratore di conoscenza. Rafaele Contu è stato un intellettuale dei primi del Novecento che ha diretto “L’Unione Sarda”, tradotto in Italia Paul Valéry e Albert Einstein, fondato con Ulrico Hoepli la prima rivista di divulgazione scientifica italiana “Sapere” e nel dopoguerra “Scienza e Vita”. Il suo percorso è stato segnato dall’amicizia con Giuseppe Ungaretti che insieme a lui ha condiviso la tragedia della Prima guerra mondiale e gli anni del fascismo, dando poi vita ai quaderni di “Novissima”, rivista di letteratura degli anni Trenta. «Quanto fu bella la nostra amicizia» scrisse Ungaretti poco dopo la morte del nonno. Una amicizia lunga una vita, durante la quale non mancarono momenti di profonde divergenze sulle scelte editoriali della collana, come racconta Claudio Auria nel bellissimo “La vita nascosta di Giuseppe Ungaretti” (Le Monnier)
Anche mio padre viveva immerso nella carta: cronista politico negli anni Sessanta e Settanta, poi direttore de “Il Settimanale”, portavoce di Amintore Fanfani al governo ed alla presidenza del Senato, ideatore e direttore di “Telema”, trimestrale di approfondimento di fine anni Novanta sullo sviluppo della tecnologia digitale e i suoi effetti sulla nostra vita. Ma la mia iniziazione alla lettura non venne da lui ma da mia nonna Maria. Da lei ho imparato che i libri hanno bisogno di una recitazione interiore per vivere: avevo sei anni e lei mi lesse nel giro di un mese, costretto a casa da una malattia linfatica, tutti i romanzi e i racconti sul grande Nord di Jack London. Ancora oggi il mio scrittore preferito. E quella voce resta uno dei ricordi più struggenti della mia infanzia.
Con il passare delle ore e dei giorni tra la polvere di migliaia di libri si è ricostruita sotto i miei occhi tutta la storia: tra le pagine, dietro una fila, da una antica cassapanca sarda emergevano lettere, appunti, fotografie, personaggi, perfino quadri. In tre settimane ho visto e odorato tutta la poesia e la letteratura dei primi anni del Novecento: ho letto lettere che mio nonno e Giuseppe Ungaretti si scambiavano per programmare il lavoro, bozze corrette, dediche, autografi, progetti editoriali di giornali che non hanno mai visto luce, come un settimanale popolare che nel 1942 avrebbe dovuto chiamarsi “Men”.
Ho compulsato un antico vocabolario sardo-italiano, ammirato il primo numero de “La Voce” di Prezzolini, sfogliato manuali e guide Hoepli dei primi del Novecento. Storie di briganti e pastori sardi, opere liriche in dialetto, la cronaca dell’inaugurazione della prima ferrovia costruita in Sardegna dai colonialisti piemontesi, il registro di guerra del nonno, capitano sul Piave, con l’elenco dei soldati rimasti uccisi, le azioni e le licenze. La guerra, le due guerre attraversate dalla famiglia: metri e metri con le opere di D’Annunzio, l’ermetismo, i manifesti futuristi. E dallo studio paterno tutti i grandi del dopoguerra: Moravia, Calvino, Pasolini, Montanelli, Eco, Sartori, Garroni, Lussu, Vittorini. Volti e nomi della Prima Repubblica mi hanno accompagnato facendomi scattare impietosi paragoni con il panorama politico attuale, sistemati sopra alla scrivania, finita nella stanza della nipote Benedetta.
E poi la poesia: quanta poesia si produceva in quegli anni e con quale gusto e raffinatezza. Tutti libretti stampati su carta pregiata, numerati, dedicati, autografati e illustrati meravigliosamente. Preparando gli scatoloni ho letto tantissime poesie, molte le ho rilette. Sono diventate la playlist di questo periodo: al posto di Springsteen e degli Smiths ecco Montale, Quasimodo, Ungaretti, Bontempelli, Saba, De Libero, Sinisgalli, Cardarelli, Pea. Tutti amici e collaboratori delle riviste a cui ha lavorato il nonno. Tutti legati dal filo dell’arte, della letteratura, dall’amore per la conoscenza e la divulgazione. Una passione che ha preso mio padre e ha contagiato anche me, nonostante ne abbia percepito fisicamente la sua pervasività soltanto oggi, grazie a questo trasloco forzato. Una passione che non può andare perduta e spero di trasmettere ai miei figli Ludovica, Francesco e Ignazio.
Chissà cosa penserebbe Rafaele Contu, nato a Tortolì nel 1895, dell’archivio che vorrei mettere in piedi e che mio padre non è mai riuscito a realizzare. Ho scoperto che oggi, grazie alla conoscenza, alla scienza e a quella rete che i miei avi hanno cominciato a raccontare nel secolo scorso, è incredibilmente semplice: con una app gratuita posso inserire i lirici greci tradotti da Salvatore Quasimodo e Grazia Deledda con pochi, semplici gesti su uno smartphone. Chissà come mio nonno l’avrebbe raccontata su “Scienza e Vita” questa app. Sono sicuro con la stessa meticolosità e con la stessa passione con la quale ha tradotto Paul Valéry e il suo Eupalino, l’architetto di Megara alla ricerca della perfezione.
Sono cresciuto tra i libri, tra la carta delle riviste e dei giornali, eppure soltanto in questi giorni ho capito che i libri, o meglio, la lettura sono il senso della vita della mia famiglia, sono il filo che lega tre generazioni. E soltanto oggi ho capito, dopo giorni di immersione tra gli scaffali della casa paterna che doveva essere venduta, che questo è stato il vero messaggio che voleva consegnarmi mio padre poco prima di morire.
*Luigi Contu ha cominciato la sua carriera come cronista parlamentare, ha guidato la redazione politica di “Repubblica” e dal 2009 è il direttore dell’Agenzia Ansa.