A chi si iscrive a questa newsletter chiedo se preferisca il passato o il futuro. Ho cominciato a farlo quasi due anni fa e dal primo giorno vince il passato, anche se solo di poco: siamo sempre 52 a 48. Mi sono domandato spesso perché, perché la maggioranza di noi preferisce che si parli di passato? La risposta che mi convince di più è che viviamo tempi in cui il futuro ci spaventa, perché è pieno di incertezze. Il passato, anche se tragico o drammatico, ci rassicura, perché perlomeno sappiamo già come va a finire. Il rischio del passato e della memoria, una cosa che io amo molto, è però quello di rimanerci incastrati dentro, prigionieri, con la testa voltata indietro.
C’è uno scrittore spagnolo, il mio preferito, che in tutti i suoi libri lega ogni cosa che accade al passato, alla storia. Si chiama Javier Cercas, ha 59 anni, parla italiano perché ama tantissimo il nostro paese e ci viene spesso. Ci siamo incontrati perché volevo farmi spiegare una frase che ripete spesso e che è il motore della sua scrittura: “Il passato è presente”. L’ho convinto a registrare la nostra conversazione che è diventata un podcast che potete ascoltare qui.
«I miei libri, all’inizio in una forma inconsapevole, ora in modo più cosciente, sono una battaglia contro quella che ho chiamato la dittatura del presente. Io credo, per usare una frase dello scrittore William Faulkner, che “Il passato non è morto e non è neanche passato”. Quello che intendo dire è che il passato di cui esiste ancora memoria e testimonianze non è passato, ma fa parte del presente e, se proviamo a farne a meno, il nostro presente risulta mutilato, non si spiega e non si comprende».
Nei libri di Cercas si raccontano spesso la stagione della guerra civile spagnola e poi della dittatura franchista. Anche adesso che ha scritto due gialli, Terra Alta e Indipendenza, che hanno un poliziotto molto sui generis come protagonista, li ha riempiti di storia e di memoria mostrando come queste condizionino in un certo senso tutta la vita e i comportamenti delle persone.
Prima di iniziare la nostra registrazione siamo andati a prendere un caffè, a Torino nel quartiere di San Salvario, a lui piace camminare a piedi e osservare i segni della storia. Gli ho spiegato che negli ultimi tempi sono preoccupato dell’uso che si fa della memoria, di come si cerchi di utilizzarla per regolare i conti del presente e gli ho chiesto se anche lui non sogni di liberarsi da quei legami e pensare solo al futuro.
Ma lui non ci pensa proprio: «Che cosa facciamo con il passato? Quello che i miei libri dicono è che bisogna prima di tutto capire e conoscere. Non è facile, anzi è molto difficile affrontare tutta la complessità senza pregiudizi e senza settarismi. Capire è il contrario di giustificare. Capire vuol dire darsi gli strumenti per non commettere gli stessi errori. E questo è essenziale. Quando penso alla Spagna mi chiedo: perché ha accettato quarant’anni di franchismo, perché da noi il 1945 non ha portato la libertà e la democrazia? È la domanda che mi sono fatto in un libro per me molto importante, che si chiama Il sovrano delle ombre e parla del passato fascista della mia famiglia. La mia famiglia non era ricca, era una famiglia cattolica del sud della Spagna, e il suo eroe è stato questo ragazzo che era falangista, cioè fascista, e alla fine della guerra civile è andato a combattere la battaglia in Terra Alta, dove è morto. Ascoltando la sua storia mi sono sempre chiesto: perché lo ha fatto? Ho scritto questo libro per darmi una risposta. Perché il fascismo ha affascinato tanta gente, perché era la moda di quel tempo e questo ce lo siamo dimenticato. Quello che bisogna fare prima di tutto è sapere. E dopo capire. Capire per non ripetere gli stessi errori».
Parliamo per oltre un’ora e la più bella frase che pronuncia e che mi porto a casa, segnata su un biglietto da visita che avevo in tasca, è del filosofo Walter Benjamin: “La felicità consiste nel vivere senza paura”.
Alla luce di queste parole capisco perché Cercas voglia sempre fare luce sui fantasmi del passato, perché sono le nostre paure che poi portano ai totalitarismi, alla violenza, alle fratture sociali.
Però una cosa ci divide ed è la lettura di questa pandemia, io sono convinto che abbia lasciato un segno dentro di noi, non credo più che ci abbia resi migliori, ma certamente diversi. Cercas invece pensa che tutto verrà presto rimosso: «Il coronavirus verrà dimenticato molto in fretta perché non è stato un fenomeno eccezionale, è ridicolo pensarlo: la Storia è la storia delle pandemie. L’umanità ne ha affrontate e superate tantissime, anche molto peggiori e mortali di questa, e ogni volta sono state immediatamente scordate. Pensa all’influenza spagnola del 1918-19, è stata terribile, ha fatto più di 50 milioni di morti, dieci volte quelli di oggi, ma tre anni dopo già non ne parlava più nessuno. E non ha lasciato alcun segno, né un film, né un libro, niente. Scomparsa dalla memoria».
E per Cercas il fatto che nessun romanzo abbia raccontato le epidemie del passato – provo a citare il Decameron scritto da Boccaccio al tempo della peste nera del Trecento e subito mi blocca: «Parla di allegria, vita e amore, non certo di pandemia» – significa che queste non saranno di insegnamento e non faranno la differenza.
«Il libro può essere una salvezza per le persone. Leggendo, le persone confrontano le loro esistenze e possono trovare dentro i libri risposte alle loro domande. Ma per ognuno di noi è diverso: c’è questo verso di Orazio che dice “De fabula narratur“, la storia parla di te, è quello esattamente che succede a un lettore con i libri. La letteratura prima di tutto è un piacere, come il sesso. Ma è anche una forma di conoscenza degli altri e di sé stessi. È per questo che quando qualcuno mi dice che non gli piace leggere a me viene istintivo di fargli le condoglianze, perché non sa che cosa si perde».
Prima di salutarci gli chiedo di indicarmi alcuni grandi libri che secondo lui sono ancora oggi di attualità, grandi classici che vale davvero la pena leggere. Non ci pensa nemmeno un attimo: «Sono tantissimi perché la vera letteratura è sempre attuale. Questo bisogna dirlo. Omero è assolutamente attuale, come Dante che è anche rivoluzionario da tutti i punti di vista, così come lo è Cervantes. Penso che abbia molto senso rileggere oggi Don Chisciotte, perché gli uomini non cambiano, sono diverse le circostanze ma le passioni e i problemi restano esattamente gli stessi. L’invidia, la gelosia, la furia, il dolore, tutto questo è immutato. Di che cosa parla quel libro che ha veramente cambiato il mondo? Parla della necessità di avere una vita intensa. Don Chisciotte è un uomo che all’inizio della storia ha quasi cinquant’anni e ha passato tutta la sua vita a sognare di essere un eroe e quando comincia il libro dice: basta! Voglio essere e voglio vivere quello che ho letto. Quello che definisce Don Chisciotte, così come Madame Bovary, è che vogliono vivere i sogni che hanno vissuto. E questa è l’essenza dell’essere umano. Madame Bovary è una piccola donna di provincia sposata con un infelice, che legge tutto il tempo romanzi romantici e a un certo punto dice: stop, io voglio vivere questo e diventa veramente un’eroina come quella dei romanzi. Nel Novecento Kafka è uno scrittore incredibile e per me assolutamente essenziale. E poi Jorge Luis Borges, quello che mi ha ispirato di più, uno dei più grandi scrittori che io abbia letto».
Alla fine mi regala una delle migliori definizioni di cosa siano i classici, è di Italo Calvino: «Un classico è un libro che non ha mai finito di dire quello che ha da dire».