Erano lì, immense, fredde, mettevano soggezione e ti facevano sentire piccolo e anche inadeguato. L’Empire State Building anche da sotto lo vedi tutto, riesce a stare nel tuo occhio, le torri invece no, dovevi allontanarti, arrivare in mezzo alla baia per poterle inquadrare per bene. Ma nei racconti di chi era salito in cima, trovavo sempre la parola Oceano, perché la vista da lassù arrivava fino all’Atlantico. In dieci anni ho provato a salirci una mezza dozzina di volte, ma all’ultimo rinunciavo sempre: perché faceva troppo freddo per mettersi in coda, perché la fila era troppo lunga, perché il caldo era insopportabile, perché quel giorno la nebbia non mi avrebbe svelato il mare o perché ero arrivato troppo presto e le visite erano ancora chiuse. L’ultima volta che lasciai perdere fu a gennaio di quel 2001. Ogni volta pensavo la stessa cosa: “Pazienza, tornerò, tanto sono sempre qui, prima o poi ci sarà l’occasione”. Così, sulle Torri Gemelle, non ci sono mai salito.
Mentre le vedevo crollare ho pensato, per la prima volta nella mia vita, che stava accadendo qualcosa di così eccezionale che nessuno lo aveva mai immaginato. La sensazione era di vedere le immagini di un film fantascientifico francamente eccessivo. Quella sensazione l’avrei provata soltanto un’altra volta: quando un virus è stato capace di fermare il mondo intero.
L’11 settembre e la pandemia sono i due eventi della nostra vita che segnano uno spartiacque, che segnano un prima e un dopo, quello che per la generazione dei miei nonni è stata la Seconda Guerra Mondiale e per i loro genitori la Prima, che era stata talmente sconvolgente che la chiamavano soltanto “La Grande Guerra”. Momenti in cui cambiano i modi di vivere, in cui acquistiamo nuove consapevolezze, che lasciano un segno profondo e duraturo, dopo i quali ripartiamo un po’ diversi.
Quando Osama Bin Laden organizzò gli attentati più drammatici e spettacolari della storia io avevo 31 anni e lavoravo alla redazione romana della Stampa. Mi occupavo di politica, ma fin da ragazzo coltivavo la passione per la storia americana e per New York, che ancora prima di vedere mi sembrava di conoscere alla perfezione talmente tanti erano i libri e i film in cui mi ero immerso.
La prima volta c’ero stato nell’estate del 1991 e la sensazione della vista dello skyline, arrivando in taxi dall’aeroporto, rimane una delle emozioni più intense che abbia provato. Era l’ora del tramonto e la luce del sole calante, mescolata a quelle dei grattacieli, era incredibile. Quando scesi dal taxi venni investito dai suoni, New York ha una colonna sonora precisa e riconoscibile, composta dal suono delle sirene di ambulanze e vigili del fuoco, che si sommano a un sottofondo sempre presente di clacson di taxi.
E poi l’odore, che spesso d’estate è un tanfo, è l’asfalto che si scioglie, sono le zaffate che salgono dai tombini e dalle grate della metropolitana, è la spazzatura dei ristoranti, sono i baracchini che servono hot dog e fanno sfrigolare sulla piastra qualunque cosa.
Sarei tornato in ogni stagione, mi sarei innamorato del parco pieno di neve, di Grand Central Station e della sua volta stellata, mi sarei perso ad osservare i volti affaticati in metropolitana, avrei camminato per chilometri e cercato i bagels più buoni.
New York diventò la mia città del cuore e il pomeriggio degli attentati sperai di poter far parte della squadra degli inviati, volevo andare a vedere cos’era successo, come stava la città. Ma ero uno dei giornalisti più giovani e le possibilità non erano molte. Alle otto di sera sembrava non esserci più nessuna speranza. Poi ben tre in lista davanti a me si tirarono indietro: chi aveva il passaporto scaduto, chi problemi con i figli e chi non poteva rinviare un intervento. Così, a tarda sera, Gianni Riotta mi chiamò e disse: “Fai la valigia che domani mattina si parte, ti portiamo con noi”. Feci la prima tratta del viaggio da Roma a Londra con Maurizio Molinari, Filippo Ceccarelli e Augusto Minzolini.
Ci mettemmo tre giorni ad arrivare, aspettammo in fila per due giorni e due notti che riaprissero il cielo sopra l’Atlantico, poi riuscimmo a salire sul primo volo che attraversò l’Oceano.
Trovammo una città irriconoscibile, completamente vuota e silenziosa, invasa da un fumo giallastro, un odore acre e pungente. L’aria era irrespirabile e per la prima volta nella vita indossai una mascherina per proteggermi.
I primi giorni non provavo nemmeno un’emozione, mi difendevo dal dolore, era troppo e troppo intenso, scrivevo pezzi sui terroristi e mi tenevo lontano da Ground Zero. Mi era bastato passare due sere a Union Square tra le donne e gli uomini che cercavano negli ospedali le persone che amavano, che giravano sollevando fotografie sperando di trovare informazioni. Pellegrinaggi senza speranza.
Poi una mattina dalla stanza del mio albergo, che era sulla Quinta Strada, sentii il suono delle cornamuse, corsi fuori per vedere cos’era e arrivai alla scalinata della cattedrale cattolica di San Patrizio. Stava entrando in chiesa la bara di un vigile del fuoco di origine irlandese, la seguiva per primo un bambino che teneva in mano il cappello del padre, uno dei 3000 orfani di quegli attentati. Crollai. E sentii improvvisamente e tutto insieme il dolore che attraversava quella città.
Dovevo restare una decina di giorni invece restai per cinque settimane, che per me diventarono un viaggio dentro New York, volevo capire come stava reagendo, come poteva resistere e rimettersi in piedi.
Vent’anni dopo la città ha voltato pagina, quel fatto è storia, e sono tornato da due dei miei compagni di viaggio d’allora per ragionare con loro su come è cambiata New York e cosa è successo all’America. Con Maurizio Molinari e Gianni Riotta ho registrato questo podcast, nuova puntata delle mie Altre/Storie.
Di quei giorni ho ascoltato e letto centinaia di storie, ma il ricordo più forte e intimo l’ho raccolto sette anni dopo, la sera del 10 settembre 2008 al Palazzo di Vetro dell’Onu, dove ero stato invitato a parlare a un simposio delle Nazioni Unite sulle vittime del terrorismo. Alla fine mi fermai con Carie Lemack, una ragazza di Boston che aveva perso la madre Judy negli attentati. Mi aveva messo al polso un braccialetto azzurro di gomma con due parole: “Remember” e “Hope”, era convinta che si dovessero tenere insieme memoria e speranza.
Mi parlò a lungo di sua madre: Judy aveva 50 anni, una piccola società di marketing e viveva per le figlie Carie e Danielle, per le rose del suo giardino e per Naboo, il golden retriever con cui camminava ogni mattina.
L’11 settembre era uscita all’alba per un viaggio di lavoro a Los Angeles, era sul volo American Airlines numero 11, il primo aereo dirottato, e la sua vita è finita insieme a quella di altre 91 persone alle 8:46 contro la torre nord del World Trade Center.
Di Judy vennero ritrovate tra le macerie delle torri solo la patente e la carta di credito, tutta sbiadita dal calore. Del suo corpo niente, nessuna traccia. Le spiegarono che era stato vaporizzato dall’esplosione.
Carie andò ad abitare a casa della madre, fece mettere una panchina in memoria di Judy nel punto in cui c’è la migliore vista sul lago e si prese cura del roseto, che per qualche inspiegabile motivo smise di fiorire. Sua sorella Danielle invece si prese Naboo, il cane.
Alla fine del 2007 Carie ricevette una lettera che la invitava a presentarsi in un ufficio di New York, le spiegarono che nei lavori di ristrutturazione di uno dei palazzi di Ground zero erano stati ritrovati dei frammenti di ossa, tra cui la scheggia di una tibia, che, grazie all’esame del DNA, venne attribuita a sua madre.
Le consegnarono una piccola scatola che tenne sulle gambe durante il viaggio di ritorno in treno per Boston. La seppellì nella terra sotto il roseto.
«Poi è successa una cosa a cui non potevo credere», mi disse alla fine del nostro incontro, «La primavera dopo sono tornate le rose».