«Il coronavirus rovinerà l’infanzia dei nostri bambini: l’assenza di gioco darà un danno permanente». Giorno due del lockdown: scanalando tra i vari talk ecco la verità calata come un macigno da uno psico-opinionista chiamato a disquisire sulle sindromi da quarantena. Ascolto la sentenza e come in un film mi passano in un lampo una serie di frame del mio essere bambino: io che inciampo nelle gambe di mio cugino correndo verso la tana del nascondino; io che gioco a pallavolo con i vicini di casa usando come rete un vecchio garage arrugginito, io che inseguo la mia compagna di classe preferita per toccarle almeno la schiena in una interminabile sfida a guardie e ladri.
Correre. Sudare insieme. Respirare la stessa polvere. Poi toccarsi, sgambettarsi, abbracciarsi, rincorrersi tra streghe, lupi, un-due-tre stelle e palle prigioniere. Puff… Tutto finito! Con la distanza sociale, il divieto di toccarsi, il metro almeno di separazione tra una bocca e l’altra, tutti questi giochi sarebbero stati impossibili. «Il coronavirus rovinerà l’infanzia dei nostri bambini?». L’ho chiesto d’istinto a Francesco Tonucci, pedagogista del Cnr, fondatore del progetto “Città dei bambini”, raffinato fumettista con lo pseudonimo di “Frato” e – soprattutto – una delle teste più lucide nel capire, carpire e interpretare le necessità dei più piccoli.
«Ma figurati – è stata la sua pronta risposta – nelle bambine e nei bambini il gioco non scomparirà mai: fa parte del loro Dna, del loro linguaggio, del loro modo per prepararsi al mondo. Se non possono più giocare a quel gioco, inventeranno un nuovo gioco. Non ci si può toccare? Ecco che in un attimo staranno giocando al “Non ci si tocca”». Fare quello che si faceva prima, ma farlo in modo nuovo. Diverso. A volte anche meglio. È quello che ci ha insegnato e ci ha fatto scoprire il coronavirus. E allora perché non provarci, almeno per gioco?
Da lì è nata l’idea di prendere i giochi più famosi, dal nascondino alla mosca cieca, dalla palla avvelenata al ruba-bandiera, e riscriverli: regole nuove per un’epoca nuova. E idem per gli sport, come il calcio o il rugby, il volley o il basket e anche una serie di giochi “da fermi”, da fare in casa o in classe. Per divertirsi in gruppo, ma stando a un metro di distanza.
Non si può correre tutti a prendere la stessa bandiera? Nessun problema: ognuno avrà il proprio pezzo di stoffa da prendere e portare dietro la linea prima dell’avversario. Non si può toccare con le mani la stessa “tana” al grido di “Liberi tutti”? Basta tracciare sul terreno dei corridoi d’ingresso separati in cui entrare, prima del compagno, dentro a un cerchio che delimita la “tana”. Ai Quattro cantoni si rischia l’assembramento? Pronta la soluzione: i cantoni raddoppiano e non si rischia più di sfiorare l’avversario. Per non parlare del calcio in cui non si corre, del rugby in cui si avanza solo all’indietro o dello sfiancante “E poi?”, infinita disfida da consumare davanti a una finestra.
Si può giocare, sì. E lo si può fare insieme, sì. E lo si può fare in casa o in cortile, in oratorio o al parco. E perfino a scuola. Anzi, la scuola ha bisogno di gioco. È il gioco l’ossigeno della relazione, della scoperta, della sperimentazione. Lo sanno bene le insegnanti e gli insegnanti, nelle loro quotidiane acrobazie tra mascherine e Amuchina, tra starnuti e moccoli, che il gioco – fine a sé stesso, fine a sé stessi – è l’ingrediente principe di una didattica che passa dal coinvolgimento e dall’empatia. Anche a un metro di distanza.
*Federico Taddia è giornalista, autore e divulgatore scientifico. Su Radio24 conduce “I Padrieterni”, scrive per “Topolino” e “La Stampa”. Con Telmo Pievani ha realizzato il podcast “Terra in vista”