Mentre l’Italia affolla le spiagge, i tavoli dei bar e dei ristoranti, pianifica il ritorno a scuola, discute del distanziamento su treni e aerei e mostra un’insofferenza crescente per la mascherina, ci sono italiani che sono ancora condannati all’isolamento. Italiani per cui la “Fase 1” non è mai finita. Sono gli anziani che vivono nelle Rsa, i pazienti delle strutture protette, i carcerati, tutti coloro che vivono in comunità che temono nuovi contagi. Comunità fragili per cui nessuno si assume la responsabilità di un allentamento delle regole.
Ricordate la storia di Franco e Adriana – la raccontai nella newsletter del 22 maggio – con lui che si era fatto ricoverare nella casa di riposo torinese all’inizio di marzo per poter stare accanto alla moglie malata di Alzheimer, con cui condivide la vita da 59 anni? Si ammalarono entrambi di Covid nella Rsa, la situazione sembrava senza speranze, ma poi sono miracolosamente guariti e sono tornati nella loro stanza. Stanno abbastanza bene ma non possono uscire in nessun modo. Sono come imprigionati nella Rsa, dove devono restare chiusi e possono incontrare i parenti su appuntamento solo mezz’ora alla settimana, in giardino. Franco non può uscire neanche per fare gli esami di follow-up per il Covid, altrimenti non lo farebbero più rientrare e così ha rinunciato. Una situazione comune ai pazienti delle case di riposo che, provati dalla clausura, spesso si deprimono e si spengono per mancanza di stimoli. Il governo ha dato ai direttori sanitari di ogni struttura la possibilità e la responsabilità di riaprire, ma dopo tutti quei morti e le tante inchieste che arriveranno nessuno si assume quel rischio.
Ma non è una storia che riguarda solo gli anziani, ho raccolto in questi giorni il racconto di un’insegnante il cui fratello ventenne vive in una piccola comunità terapeutica romana. Questo ragazzo, che chiameremo Lucio per proteggerne l’identità, ha un disturbo psichico, schizoaffettivo, che viene curato con una terapia sia farmacologica che psicologica. Vive in comunità da due anni e si sono registrati grandi miglioramenti, poi sono arrivati il virus e il lockdown. «Da quando è finita la “Fase 1” – mi spiega la sorella – nessuno a livello centrale si prende la responsabilità di una decisione e le comunità stesse sono paralizzate; mio fratello stava facendo un percorso molto bello ma da quando è iniziata la quarantena la sua realtà, come tutte le altre, è abbandonata a sé stessa e il disagio dei pazienti aumenta ogni giorno».
Le chiedo cosa significhi che sono ancora nella “Fase 1”: «Significa che si può andare a trovarli a distanza, su appuntamento, con la mascherina e non li si può sfiorare. Significa che fino a tre settimane fa non potevano uscire per nessun motivo. Ora la comunità si è presa la responsabilità di farli tornare dalle famiglie a turno per una settimana. Significa che mio fratello non tornava a casa da quattro mesi, finalmente è accaduto, ma ora la prossima volta che succederà sarà all’inizio di ottobre. Significa che quando rientrano in comunità devono stare in una stanza isolata in quarantena e fare il tampone. Significa che non possono più uscire da soli. Prima del Covid, potevano uscire tutti i giorni due o tre volte, per fare una passeggiata, prendere un caffè o per le piccole spese, adesso lo possono fare a rotazione e solo con gli operatori. Ieri sera ci siamo sentiti al telefono e lui mi ha chiesto: “Sono diventato incapace di intendere e di volere? Perché accompagnato? Per quale ragione?” Probabilmente temono che non rispettino le misure di sicurezza, nel frattempo però vediamo cosa succede sulle nostre spiagge, sugli autobus o sui treni regionali».
La cosa che più abbatte questi giovani, come gli anziani, è questa “Fase 1” eterna, i percorsi di cura sono interrotti e si sentono discriminati: «Nel mondo tutto è cambiato ma questi soggetti deboli sono segregati, la cosa più terribile è non avere un termine. Temo resteranno così fino alla fine dell’emergenza, finché non verrà trovato un vaccino. Non credo che sia giusto. I più colpiti dal virus oggi sono i più penalizzati e quelli che pagano il prezzo più alto». Torno a pensare a Franco e Adriana, alle passeggiate che facevano ogni giorno nel parco pubblico, e non capisco perché, restando in sicurezza, non si possa restituire loro questa libertà e un briciolo di serenità.