11 Dicembre 2023

Le storie muovono le montagne

Paola Cortellesi ha riportato il pubblico e gli applausi nelle sale. Il suo film, C'è ancora domani, non solo è già tra i primi dieci della storia del cinema italiano, ma ha un merito ben più grande: aver rimesso al centro il tema della violenza degli uomini contro le donne. L’attrice e regista racconta nel podcast Altre/Storie come ad ispirarla siano stati i racconti delle sue nonne, lo stupore di fronte a un successo clamoroso e la convinzione che "le storie possono muovere anche le montagne".

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Erano anni che non mi capitava di trovare la sala del cinema completamente piena, pensavo che non mi sarebbe mai più successo, che l’esperienza del grande schermo fosse condannata a un inesorabile declino. Poi sono andato a vedere “C’è ancora domani”, il film di Paola Cortellesi, e ho respirato un’aria di condivisione che mi ha ricordato cosa sia il cinema e alla fine è successo qualcosa di altrettanto inatteso: un lunghissimo applauso. Quella sera ho sentito che ci possono essere ancora momenti collettivi nei quali un tema può diventare consapevolezza.

Paola Cortellesi in una scena del film “C’è ancora domani”  © Foto di Claudio Iannone/Ufficio stampa

La aspettavo al cancello del piccolo studio di registrazione romano nel quale ci eravamo dati appuntamento per registrare la nuova puntata del podcast Altre/Storie, ma quando è arrivata non l’ho riconosciuta, intabarrata in un piumino nero con cappuccio. Imbarazzata mi ha fatto ciao con la mano e si è scusata per “avere sempre freddo”. 

Il suo film ha superato i 4 milioni di spettatori e si avvia ad essere il più visto dell’anno e siccome Paola Cortellesi è una persona gentile ha fatto sostanzialmente il giro d’Italia andando a ringraziare, alla fine delle proiezioni, i suoi spettatori: «Sì, a ringraziare la gente! Di solito si fanno questi incontri nei giorni dell’uscita per attirare il pubblico e poter dialogare con loro; invece qui non ce n’era bisogno ma ci sembrava giusto ringraziare come si fa a teatro con un inchino».

Appena si siede sullo sgabello di fronte al microfono mi racconta che un paio di volte si è nascosta al buio per ascoltare le reazioni e ha scoperto «una cosa bellissima: gli spettatori fanno il tifo per la protagonista e partecipano alla storia».

La cosa sorprendente è che sulla carta questo progetto aveva tutte le difficoltà possibili: «Un film d’epoca, sulla violenza domestica, che non è proprio un argomento divertente, e poi in bianco e nero. Era difficilissimo immaginare che potesse avere successo. Ma io lo volevo esattamente così: in ogni virgola, in ogni inquadratura, in ogni piccolo dettaglio. Sono stata maniacale. Mi aspettavo che ci fossero reazioni forti ma mai mi sarei immaginata tutto questo».

Paola Cortellesi nello studio di registrazione di Roma (il podcast con la sua intervista lo potete ascoltare qui)

Il film, per chi non l’avesse visto, è ambientato a Roma nel 1946 e racconta la vita di una donna che ha tre figli e subisce continue violenze e umiliazioni dal marito (interpretato da Valerio Mastandrea), ma le subisce con rassegnazione e nel disinteresse di chi la circonda. La storia però racconta di una maturazione di consapevolezza e identifica nell’istruzione e nella partecipazione le vie per emanciparsi

Paola Cortellesi ci parla del 1946, ma la violenza contro le donne è un tema tragicamente d’attualità (in Italia c’è in media un femminicidio ogni tre giorni) e poco dopo l’uscita della pellicola c’è stato l’omicidio di Giulia Cecchettin, che ha finalmente scosso le coscienze e obbligato uomini e donne a discutere della necessità di un cambio radicale di cultura e mentalità.«Credo che il successo del film sia dovuto al fatto che ho toccato un nervo scoperto, però non pensavo che la ferita fosse così tanto aperta da scatenare una reazione del genere e su una scala così ampia. Non ho la presunzione di voler raccontare delle grandi verità a nessuno, anche perché non sono depositaria di nessuna verità in particolare, però conosco le storie e le esperienze di tante donne che sono legate al navigare dentro un’acqua avvelenata da prevaricazioni millenarie».

Paola Cortellesi, Valerio Mastandrea, Gianmarco Filippini e Romana Maggiora Vergano in una scena del film “C’è ancora domani”  © Foto di Claudio Iannone/Ufficio stampa

Dopo anni in cui ha fatto la sceneggiatrice e l’interprete, Paola Cortellesi si è sentita pronta per fare un suo film: «Volevo che parlasse di diritti, di un riscatto, ma non volevo che fosse la storia di un’eroina. Ero partita da queste storie delle mie nonne, storie che mi ronzavano in testa da quando ero bambina». Storie di fatalismo, di rassegnazione, di accettazione della violenza di genere ma che le venivano raccontate come ineluttabili: «Avevo in mente un film che iniziava con una che dice “buongiorno” e prende un ceffone in faccia, ma poi prosegue come se niente fosse. Questo come niente fosse è la cosa che mi ha sempre colpito di più, perché le storie di violenza venivano raccontate nella loro tragicità come niente fosse, nello stesso modo in cui nelle memorie familiari si parlava dei morti per una polmonite o in guerra».

Se la prima scena l’ha sempre avuta in testa, il finale le è venuto in mente una sera, mentre leggeva a sua figlia un libro di Cecilia D’Elia che si intitola “Nina e i diritti delle donne” in cui si parla anche della prima volta in cui tutte le italiane votarono: per il referendum del 2 giugno 1946. Il film ripercorrendo il cammino dei diritti restituisce un nuovo senso e valore a quella data, come giorno in cui milioni di donne esercitarono per la prima volta un loro diritto fondamentale.

Paola Cortellesi durante le riprese del film “C’è ancora domani”  © Foto di Luisa Carcavale/Ufficio stampa

Paola Cortellesi è convinta che ora un ruolo fondamentale per cambiare le cose lo possano fare le scuole: «Sono molto convinta che la differenza la si faccia educando. Da lì dobbiamo partire. Certo, è molto avvilente dover parlare di fare ancora la sensibilizzazione sulla violenza contro le donne. È avvilente ma necessario. Chiaramente per formare una società ci vogliono generazioni, però bisogna cominciare a farlo subito, bisogna educare al rispetto, educare ai sentimenti, educare a come accogliere un rifiuto. Dobbiamo crescere una generazione di ragazzi e ragazze, di uomini e donne consapevoli e che riescano a convivere nel rispetto».
Le chiedo cosa dica alle ragazze e ai ragazzi quando li incontra (in un solo giorno si è collegata con 56.000 studenti in contemporanea, di 365 scuole in quasi 300 cinema in tutta Italia) quando parla con loro alla fine delle proiezioni: «Non ho cose particolari da insegnare ai ragazzi, però posso raccontare delle storie. Ho questa forza e le storie muovono anche montagne, smuovono tutto quello che c’è da toccare dentro ognuno di noi. E questa è la potenza delle storie».

Emanuela Fanelli e Paola Cortellesi sul set di “C’è ancora domani”  © Foto di Luisa Carcavale/Ufficio stampa

Esiste una mattina dopo le cadute della vita, ma anche una mattina dopo i grandi successi, ci si potrebbe sentire svuotati, spaventati dalla richiesta di essere all’altezza delle aspettative, ma Paola Cortellesi mi sembra molto serena, allora alla fine le chiedo se ha realizzato i sogni che aveva nella vita

«Sai che non ho mai avuto dei sogni? E non perché non avessi ambizioni ma perché li ho sempre considerati dei progetti. Non ho mai pensato: “Speriamo che si realizzino” ma ho sempre pensato a cosa dovevo fare affinché i progetti si realizzassero. Ho tanti desideri però sono desideri sempre legati a qualcosa di concreto che si può realizzare». Poi però mi confida di essere molto orgogliosa di quello che ha fatto e lo sintetizza così: «Il commento più bello che ho letto su questa storia è questo: “Si esce con la voglia di cambiare il mondo”. A me basta che una persona, anche una sola, lo abbia pensato».

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