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18 Marzo 2021

Quella visione sdoppiata del terrorismo

Nel suo nuovo volume, lo scrittore Giuseppe Culicchia traccia una biografia familiare di Alasia: il giovane che sparò ai poliziotti per sfuggire all’arresto, rimanendo a sua volta ucciso, era suo cugino. Il racconto, però, è falsato dalla retorica vittimistica sugli anni di piombo
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Non ho avuto un cugino brigatista rosso, ma una compagna di università sì. Capitava, in quegli anni. Amici, compagni, amici di amici, visi noti che scomparivano all’improvviso e riapparivano in foto sul giornale. Occhi sbarrati da vecchi documenti sotto i titoli in nero: arrestati in un covo, per strada, con un volantino… E quando capitava, la prima sensazione era quella di essere stati traditi, perché la militanza brigatista richiedeva innanzitutto doppiezza: mai rompere il diaframma tra la propria esistenza pubblica e la militanza clandestina. Padri, madri, fratelli, sorelle, compagni, amici scoprivano all’improvviso di aver vissuto con ragazzi che volevano dare l’assalto allo Stato, erano pronti ad armarsi, a sparare, a uccidere. È dunque comprensibile che quando Giuseppe vede la faccia di Walter in tv e trova tutta la famiglia in lacrime davanti allo schermo in bianco e nero si senta sprofondare in un incubo: «Non può essere vero, non puoi essere tu, Walter, il mio Walter, morto ammazzato e che prima di morire hai ammazzato e nessuno di noi sapeva che eri entrato nelle Brigate Rosse».

Una magnolia nel giardino milanese dedicato al vicequestore Vittorio Padovani e al maresciallo Sergio Bazzega, uccisi il 15 dicembre 1976 dal brigatista Walter Alasia che spara per sfuggire all’arresto e che rimarrà a sua volta ucciso

Dal profondo degli anni Settanta e dai suoi luoghi comuni, arriva un libro che di quel paradigma ne è la rappresentazione simbolica ed estrema attraverso la faccia nascosta della vita di Walter Alasia, raccontato dall’infanzia del suo cuginetto Giuseppe Culicchia, oggi scrittore (il suo primo romanzo, “Tutti giù per terra”, fu nel 1994 un celebrato e sorprendente successo) e traduttore (tra gli altri di Bret Easton Ellis). Questo suo nuovo libro è un memoir intenso e originale che però non riesce a uscire dal paradigma ideologico di quegli anni e alla fine ne dà una rappresentazione retorica: i fantasmi di un incombente golpe fascista, l’onnipresente evocazione dello spettro Cia, il tradimento della classe operaia da parte del Pci di Berlinguer sono tuttora una chiave di lettura per il terrorismo di allora? O piuttosto la caricatura narrativa e insieme la svalutazione dei valori costituzionali che hanno tenuto insieme l’Italia e le sue istituzioni?

Giuseppe Culicchia aveva 11 anni, Walter Alasia ne aveva 20. Era il 15 dicembre 1976. Giuseppe viveva a Grosso Canavese, pochi chilometri da Torino; Walter a Sesto San Giovanni. Era l’alba, la polizia ha bussato alla porta, s’è alzata la mamma, si è alzato il papà, s’è svegliato il fratello Oscar che dormiva con lui. È in quel momento che si è spezzato il diaframma interiore del terrorista e Oscar ha assistito incredulo alla metamorfosi di quel fratello che aveva sempre visto come «un ragazzo tenero e per niente violento». Walter è un altro, si alza, impugna una pistola, si affaccia alla porta e spara. Oscar non capisce che sta succedendo, grida: «Cosa fai?». Ma Walter non risponde, si infila giubbotto e calzoni, carica di nuovo la rivoltella: «Aveva gesti rapidi, sicuri, non mostrava eccitazione. Aveva una faccia tranquilla, solo un po’ cupa, come fosse contrariato. Cos’hai fatto Walter? Lui non mi dà neanche un’occhiata, si infila la rivoltella nella cintura, si avvicina alla finestra, due strattoni alla tapparella e salta giù. Sento una raffica, corro al balcone, era steso su un fianco, le gambe piegate, immobile…».

Due poliziotti erano stati colpiti dalla Luger di Walter nello stretto corridoio di quel piccolo appartamento popolare al piano rialzato di via Leopardi: Vittorio Padovani, 47 anni e quattro figli, vicequestore di Sesto e Sergio Bazzega, 31 anni e un figlio, maresciallo dell’Antiterrorismo. Non avevano sparato nemmeno un colpo per non rischiare di colpire i genitori di Walter. Muoiono poco dopo all’ospedale. Altri poliziotti entrano in casa, riportano Oscar nella camera che condivideva col fratello, frugano in una pila di giornali dietro la libreria, saltano fuori pacchetti sigillati con lo scotch, volantini con la stella a cinque punte: «“Tuo fratello era nelle Brigate rosse” – mi dicevano i poliziotti – “non lo sapevi?” Io stentavo a credere a quello che vedevo con i miei occhi». Ma non era finita, un poliziotto solleva il divano-letto, e tra materasso e rete salta fuori una borsa grigia di plastica, la apre e dentro c’era una carabina col calcio segato, di quelle con il caricatore che si infila dall’alto. Ancora Oscar: «Pensavo: ma cosa può aver fatto Walter? Cosa credeva di fare? Ha rovinato una famiglia e basta…».

Milano, 15 dicembre 2010. All’inaugurazione del giardino dedicato a Bazzega e a Padovani presenziano anche l’allora sindaca Letizia Moratti e Mirella, vedova di Padovani, che qui parla nel momento in cui viene scoperta la targa commemorativa (la foto è tratta dal sito della Casa della Memoria di Milano)

Sono passati 45 anni, Giuseppe ne ha ora 56 e ha deciso di svelare la sua ossessione e raccontare in un libro quel cugino che vedeva d’estate e con il quale adorava giocare. Non quello che tutti sapevano, il freddo assassino di due poliziotti, il brigatista morto che aveva dato il nome alla colonna milanese delle Br e nel cui nome, scandito da giornali e tv ad ogni attentato, altri morti e altro sangue si sono rovesciati. Non quello, ma il Walter che giocava con Giuseppe a Grosso Canavese, a dama a scacchi a rincorrersi nei prati; a calcio a basket a palla avvelenata; ai soldatini, Walter nella parte di Nuvola Rossa, Giuseppe in quella del generale Custer. E il gioco della guerra, con una Luger tedesca giocattolo, identica all’originale, marca Lionmatic che faceva un gran rumore a ogni scatto di grilletto. E tragicamente identica a quella vera che Walter avrebbe usato per uccidere i due poliziotti venuti ad arrestarlo.

Il libro si intitola “Il tempo di vivere con te”, è pubblicato da Mondadori Strade Blu ed è un racconto crudo, a tratti rabbioso di una famiglia investita dal lampo settario e assassino degli anni Settanta.

Le mamme di Giuseppe e di Walter erano sorelle, Gabriella e Ada. Il papà di Giuseppe era barbiere immigrato da Marsala, il primo siciliano a Grosso Canavese. Ada operaia alla Sapsa, gruppo Pirelli, reparto P, materassi in poliuretano espanso, dove si lavorava sempre in una nebbia grigia che prendeva agli occhi e alla gola. Un’onesta vita operaia, di fatica, di lotte, di esclusione e la miseria di un milione e mezzo di liquidazione dopo quindici anni di lavoro. Nel libro di Culicchia leggiamo di pranzi famigliari dove «si parla, si ride, si discute, soprattutto di politica, della Dc serva della Confindustria, della mafia che è il braccio armato della Cia in Italia, di Berlinguer che ha tradito la classe operaia per andare al governo con i padroni». E Walter, che quando sentiva il nome di Berlinguer si alzava in piedi con il pugno chiuso e scandiva: «Viva Marx! Viva Lenin! Viva Mao Tse-Tung!». Ma Giuseppe è un bambino e non aspetta altro che il cugino la finisca per dirgli: dai, andiamo a giocare.

È quella la parte di Walter che non è mai uscita dalla sua vita: «L’altra notte ti ho sognato, eri bello come un giglio e ridevi, io mi arrampicavo, tu mi facevi il solletico, sapevo di potermi staccare e cadere perché c’eri tu pronto a prendermi tra le tue braccia… Tu hai vent’anni, io undici, tu sei alto, con gli occhi blu. Non amarti è impossibile, sei sempre di buon umore, affettuoso, generoso, quando imbracci la chitarra e intoni una canzone di Battisti, hai una voce calda, bellissima». Del Walter brigatista il bambino Giuseppe non sa niente; lo scrittore Culicchia sa quello che ha letto.

Per la ricostruzione della vita e della tragica sparatoria, ricorre con ampie citazioni a “Indagine su un brigatista rosso”, l’accurata inchiesta dell’inviato de “l’Unità” Giorgio Manzini pubblicata da Einaudi nel 1978. Per raccontare come Walter era entrato nelle Brigate Rosse, Culicchia ritrova un testo di Renato Curcio, uscito anni fa nel “Progetto memoria” del fondatore delle Br, una specie di lettera postuma al giovane brigatista: «Quel primo nostro incontro – ti ricordi? – in zona Ticinese. Io che mi presentavo come ex operaio della Fiat e tu che te la ridevi sotto i baffi. E poi gli addestramenti nelle grotte di qualche valle bergamasca. Tu che mi scherzavi per via dell’età: “Lascia a me questa Luger, è troppo grossa per un vecchietto come te!”. E io che ti sfidavo mentre risalivamo il fiume: “Ne hai da fare di strada, ragazzo, prima di tener dietro al mio passo”. Ridevamo. Ma la Luger, che Feltrinelli mi aveva lasciato, io te la affidavo volentieri. Pur se di generazioni diverse eravamo entrambi in quel gioco d’armi pieno e vero e tu, per me, rappresentavi il futuro». Renato Curcio è il “convitato di pietra” del libro, l’uomo che consegna a Walter un’arma e che si aspetta che lui la usi.

Sull’ultimo numero della “Lettura” del “Corriere della Sera”, a cura di Cristina Taglietti, è stata pubblicata una conversazione tra Giuseppe Culicchia e Giorgio Bazzega, figlio del maresciallo ucciso da Walter che nel 1976 aveva due anni e mezzo. Il suo racconto dell’incontro con Curcio è una testimonianza drammatica: «Fantasticavo di ucciderlo, mi preparavo per quello. Poi un giorno è venuto a fare un incontro alla Barona, dove sono cresciuto. Mi sono presentato con il mio cane e gli ho detto: sono Giorgio Bazzega, ti dice niente questo nome? L’ho visto confuso. Indietreggiava. Di lì si vedeva la finestra dove abitava mio padre, gliel’ho mostrata, ho allungato la mano a toccargli la spalla e gli ho detto: adesso continua pure il tuo incontro. All’improvviso mi sono sentito liberato». L’ossessione di Bazzega per l’uomo che considerava il mandante dell’uccisione del padre, era finita e lui poteva finalmente guardare avanti.

Milano, 15 dicembre 2010. Un’altra immagine dell’inaugurazione del giardino intitolato a Bazzega e a Padovani: qui parla Giorgio, il figlio di Bazzega (la foto è tratta dal sito “Per non dimenticare” del Sistema archivistico nazionale del Ministero dei Beni culturali)

Anche Culicchia avrebbe potuto incontrare Curcio, al Salone del libro di Torino, dove da molti anni cura rassegne e incontri, ma «non ho mai voluto», dice nel libro; «il mio percorso non è ancora finito», ha precisato alla “Lettura”. Un atto mancato, che rivela il suo attaccamento all’ossessione per quel “bellissimo” cugino e che tuttora non è finita come dimostra questo libro scabroso. Culicchia ha ancora in mano la Luger di plastica, porta i suoi figli a vedere dove giocava con lo zio Walter. Ma un giorno dovrà spiegare a loro e a sé stesso perché quel ragazzo generoso è diventato un assassino.

Il volume finisce con una lettera alla sorella della mamma, l’unica che sapeva delle Br: «Ho coperto la sua tomba di garofani rossi, è stato un compagno partigiano fino all’ultimo respiro. Il suo modo di lottare lui l’aveva scelto non per morire ma per vivere libero». È l’iperbole di una mamma e che si può comprendere. Ma poco prima c’è la conclusione dell’autore, dove lo scrittore Culicchia si ricongiunge al piccolo Giuseppe in un’ultima vittimistica e giustificativa rappresentazione: «Hai agito perché eri convinto che la Resistenza fosse stata tradita e credevi nel comunismo. So che pensavi che l’Italia fosse a un passo dalla Grecia dei colonnelli o dal Cile di Pinochet. So che sei entrato nelle Brigate Rosse perché ritenevi che fosse la sola via che restava al proletariato visto il percorso intrapreso dal Pci».

È un libro prigioniero della gabbia ideologica degli anni Settanta e che non riscatta Walter, anzi lo sigilla intatto nel suo destino, vittima anch’egli del fanatismo, ma pur sempre colpevole. Chi lo legge senza sapere niente di quegli anni può pensare che Walter Alasia sia stato un eroe, ma purtroppo per la sua famiglia, per quelle di Vittorio Padovani e Sergio Bazzega e per tutti noi non è così.

*Cesare Martinetti (Torino, 1954), giornalista dal 1976: “Gazzetta del Popolo”, Ansa, “la Repubblica”. A “La Stampa” dal 1986. Inviato, corrispondente da Mosca, Bruxelles e Parigi, vicedirettore. Due libri, “Il padrino di Mosca” (1995) e “L’autunno francese” (2007), entrambi editi da Feltrinelli.

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