Edit 8 giugno 2023.
Piero Corte ci ha lasciato questa notte. In autunno avrebbe compiuto novant’anni.
Se ne è andato senza disturbare, con coraggio e gentilezza, le cifre della sua esistenza.
Era a Monterosso, dove c’è la sua vigna a picco sul mare, quella in cui diffondeva giorno e notte la musica classica. Nel luogo dove a ottant’anni aveva cominciato a volare con il parapendio.
Sua figlia Marianna porterà avanti la sua vigna e la sua lezione, noi possiamo ascoltare la sua voce, che mi aveva regalato per un podcast di Altre/Storie, e tenerlo vivo con noi.
Piero aveva 11 anni e stava giocando nella piazza del paese quando arrivò una macchina di militari tedeschi, in un attimo se lo portarono via. Era il primo aprile del 1944. I nazisti avevano avuto una soffiata: il papà di Piero, Giovanni Battista, staffetta partigiana della Brigata Garibaldi della Valsesia, era sceso in paese a prendere dei documenti; lo volevano catturare e quel bambino era l’unico a sapere dov’era. Doveva tradire suo padre. Settantotto anni dopo, Piero ancora si commuove mentre lo racconta, mentre mi parla del momento che più di ogni altro ha definito la sua vita e le sue scelte.
Siamo seduti su una panca di legno, intorno a noi una vigna a picco sul mare, davanti agli occhi Monterosso e il promontorio di Punta Mesco. Piero Corte in autunno compirà 89 anni, è nato in Piemonte, cresciuto sotto il Monte Rosa e oggi vive metà del suo tempo in Liguria dove produce un vino bianco salino di cui al massimo ne fa 1200 bottiglie. Sono venuto a incontrarlo per trovare una memoria diretta dei giorni della Liberazione, per farmi raccontare dei partigiani e di cosa gli ha lasciato dentro il 25 aprile. Ho registrato la sua voce e ne è nato un podcast emozionante che potete ascoltare qui e in cui mi racconta dei giorni terribili che lo hanno trasformato da bambino in un uomo, e in una staffetta partigiana.
«Eravamo in sei fratelli e mio papà faceva il pescatore di fiume. Mio nonno, socialista, era morto che mio papà aveva 14 anni, così lui non prese mai la tessera fascista e non ha mai avuto un impiego. La nostra spesa veniva pagata con le trote che prendeva al fiume. Papà era anche alpinista e dopo l’8 settembre 1943 salì in montagna, per aiutare dissidenti e clandestini a fuggire in Svizzera passando sui ghiacciai del Monte Rosa. Il primo viaggio lo fece su richiesta del sacerdote di Varallo che si trovò in sacrestia dei soldati alleati che, fatti prigionieri dai tedeschi, erano riusciti a scappare. Erano tutti stracciati e sbrindellati e il prete glieli affidò. Nei mesi successivi da casa nostra ne passarono moltissimi e ricordo che ci lasciavano la scabbia e i pidocchi».
Poi nella vita del padre di Piero entrò in scena Vincenzo Moscatelli, nome di battaglia Cino, il comandante delle Brigate Garibaldi della Valsesia, uno dei capi partigiani più noti, dopo la guerra deputato comunista all’Assemblea Costituente. «Moscatelli disse a mio padre e ai suoi amici alpinisti: “Guardate che adesso dovete organizzarvi. Se non vi armate e non trovate il modo di difendervi, sapete che fine fate”. Gli fornì le armi e li aiutò a entrare nelle Brigate Garibaldi. Però mio papà era antimilitarista, aveva la sua pistola, ma è riuscito a fare il partigiano senza mai usarla, perché aveva scelto la strada meno violenta di fare la Resistenza, che era quella di fare la staffetta».
Il padre di Piero ascoltava sempre Radio Londra, che trasmetteva i messaggi in codice per le forze partigiane, anche Piero lo faceva di nascosto in casa, in paese, sapendo che se lo avessero scoperto i fascisti, sarebbero stati guai. Aveva imparato che quando arrivava un certo messaggio in codice, suo padre scendeva dalla montagna per prendere certi documenti. Ricorda che uno dei messaggi per suo padre recitava: “la vacca sul binario”. Il giorno più drammatico della vita di Piero cominciò proprio quando il padre arrivò in paese per una missione.
«Papà andava in questa osteria, tenuta da gestori antifascisti, dove arrivavano dei documenti che dovevano poi essere smistati e finire o a Zermatt o a Valduggia, dove c’era il comando di Moscatelli. Qualcuno fece la spia e disse che mio papà era sceso a Varallo ma non sapeva dove, così vennero a prendere me. L’osteria era lì a pochi passi ma io li portai da un’altra parte. Pensavo “intanto così mio papà lo avvisano e scappa”. Lui non c’era naturalmente e loro si arrabbiarono. Per cercare di dargli tempo li ho portati in un altro posto sbagliato, ma hanno capito che li prendevo in giro, si sono incazzati e io ho avuto paura. Allora li ho portati in quella osteria, lì dove io credevo che mio papà non ci sarebbe stato più. Invece lui era lì, sulla porta che aspettava».
«Il tempo lo aveva avuto, ma non era scappato. A Borgosesia qualche giorno prima avevano ammazzato un ragazzo di 14 anni perché aveva portato il pane ai partigiani. Lui lo sapeva e voleva salvare me. Mi scaraventarono giù dalla macchina e portarono via lui. Non mi sono mai sentito tanto in colpa. Lo portarono nel seminterrato delle scuole elementari dove lo interrogarono duramente per due settimane. Io cercavo un modo per raggiungerlo, per dirgli che non l’avevo tradito. Finché un giorno arrivo fuori dalla scuola e sento un fascista che dice che ci sarà una fucilazione di partigiani. Riesco ad affacciarmi e vedo un cappellano della Tagliamento che li sta confessando. Guardo giù e c’era mio papà che stava mettendo la mano sulla spalla a uno che si disperava. Io comincio a gridare “Papà, papà, papà, io non ti ho tradito”. Lui mi grida: “Vai a casa!”. Esco e corro a casa; “Mamma, mamma, guarda che fucilano papà, fucilano papà”. Allora mia madre ha detto: “Se fucilano papà devono fucilare anche tutti noi”. Siamo andati lì, sul piazzale dove dovevano passare i condannati, ammanettati. Li fecero sfilare per tutto il paese fino al cimitero, legati in fila indiana. E noi dietro. Mia madre con tutti i figli. La prima sorella che aveva vent’anni, che poi ha fatto parte del comando partigiano in Valsesia, è svenuta a metà strada. Quindi siamo arrivati in cinque e ci siamo messi davanti ai fascisti. E lì è intervenuto il parroco, era un fatto probabilmente importante che un padre di sei venisse fucilato. Dopo una lunga trattativa hanno accettato di liberare mio padre, ma in cambio hanno prelevato in ostaggio mio fratello che si chiamava Franco, che aveva 17 anni. Lo hanno vestito da fascista e se lo sono portati via. Ricordo la disperazione di mia madre». Franco tornò a casa un anno dopo, aveva perso un piede saltando su un campo minato.
Quel giorno anche Piero entrò nella Resistenza.
«Mio padre, per non correre rischi nel caso fosse catturato, mi portava con lui. Partivamo con la canna da pesca oppure con lo zaino e facevamo finta di andare agli alpeggi a scambiare il sale con il formaggio. Ma io ero imbottito di documenti. Camminavamo per giorni in montagna. I primi tempi avevo paura, poi mi capitava di stare in mezzo ai partigiani, a questi ragazzi giovani e tutti barbuti, che discutevano e cantavano, e alla fine mi piaceva. Mi sentivo anche importante».
Noi oggi non riusciamo a immaginare cosa possa essere stato il 25 aprile, che sensazione di libertà, di gioia e insieme di caos e incertezza, possano aver vissuto gli italiani, specie quelli che vivevano nel nord, sotto l’occupazione nazifascista. «Mi ricordo la scena di mio padre che scende dalla montagna, con tutti gli altri comandanti, ed è in prima fila. Ho pensato che fosse il giorno più bello della mia vita. Il giorno prima c’erano ancora i morti in terra, ma ti eri dimenticato improvvisamente di tutto. Sembrava un sogno, è stata una giornata bellissima».
La vita di Piero è piena di cose che mi racconta, tira fuori un salame, della focaccia e stappa una bottiglia del suo vino e continua a parlare. La vita è stata un successo negli anni del boom economico, si è comprato una spider e ha fatto carriera, ma i fantasmi del fascismo lo hanno tormentato a lungo, con sogni e incubi ricorrenti. La felicità vera l’ha trovata a cinquant’anni quando ha comprato questo pezzo di terra sul mare e si è reinventato contadino. Nella sua vigna, come potrete ascoltare nel podcast, c’è sempre un altoparlante acceso che diffonde la musica di Mozart.
La sua forza è stata quella di sognare sempre, di fare continuamente nuovi progetti. A ottant’anni ha smesso di salire sui ghiacciai del Monte Rosa e di scendere a Zermatt e anche di sciare. Non si divertiva più.
E allora cosa ha fatto? «Ho risolto un po’ il problema facendo parapendio».
Parapendio? «Sì, perché la meraviglia è indescrivibile. Poi forse sarà che io ho sempre avuto tanta paura da piccolo e ho ancora bisogno di qualche emozione forte. È stupendo e incantevole, non vorrei scendere più. Sto bene, lassù io. Nell’aria».