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25 Maggio 2024

Si cresce solo insieme

La risposta più bella alla proposta di classi separate per chi è capace e per chi fa fatica viene da un piccolo libro scritto da un’insegnante di sostegno. Che racconta quanto l’esperienza della diversità arricchisca tutti (anche i professori) e che ha un titolo che dovrebbe essere un manifesto: la scuola è un posto che ti aspetta
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«Lavoro come insegnante di sostegno dal 1998, in questi anni ho seguito una bambina tetraplegica, una bambina sorda, un bambino autistico, un ipovedente, un bambino iperattivo, bambini con disturbi del linguaggio, con ritardi mentali, psicosi, disturbi affettivi relazionali gravi provocati da violenze o da pesanti situazioni familiari. E ogni volta che mi siedo accanto a uno di loro lo considero un dono».

Emilia Gibelli ritratta nell’illustrazione di Monia Donati

Da un anno, in cima a una delle pile di libri che abitano la mia scrivania, c’è un piccolo volume con la copertina verde e un titolo gentile: “La scuola è qualcuno che ti aspetta”. Me lo ha regalato l’insegnante di sostegno di una scuola elementare torinese che lo ha scritto, spiegandomi che è il diario “di una grande avventura umana e professionale” accanto a un bambino autistico. 

Quando sono scoppiate le polemiche per la proposta del generale Vannacci di dividere gli studenti in classi separate sulla base della capacità, ho capito che in quel libretto avrei trovato una risposta. Appena ho finito di leggerlo ho chiamato l’autrice, Emilia Gibelli, per farmi raccontare da lei quanta ricchezza c’è nelle classi in cui qualcuno ha bisogno dell’insegnante di sostegno: «Ti obbliga a riconoscere che tutto è un dono, perché nessuno sceglie capacità e difficoltà. La nostra intelligenza e le possibilità che abbiamo ci sono state date e non lo dobbiamo dare per scontate. E deve farci comprendere che ogni persona ha un valore perché c’è, perché esiste, non per i risultati che ottiene».

L’Italia è stato il primo paese al mondo che ha deciso, nel 1977, l’abolizione delle classi speciali con la legge sull’inclusione scolastica: «Non possiamo tornare indietro, è una conquista di cui dobbiamo essere orgogliosi. Ai miei scolari una volta ho detto: “Lo Stato ha talmente stima della persona che spende molti soldi affinché anche chi è più debole e in difficoltà possa fare un cammino e sviluppare le sue possibilità”. La trovo una cosa commovente che ci deve rasserenare tutti, perché tutti abbiamo qualche difficoltà. E dobbiamo sottolineare che c’è spazio anche per chi è imperfetto, non solo per chi è più efficiente». Secondo Emilia, chi ha condiviso la classe con compagni con disabilità ha uno sguardo diverso sugli altri e sul mondo, ha più empatia e capacità di accogliere.

Il libro di Emilia Gibelli, “La scuola è qualcuno che ti aspetta”, edito da Bookabook narrativa. Si può comprare online o ordinare nelle librerie

Emilia mi racconta che questo lavoro le è sempre piaciuto, anzi forse fa parte del suo DNA: «Quando ero in seconda media nella mia classe è arrivata una nuova compagna che non parlava. Mi sono seduta accanto a lei e per sei mesi le ho ripetuto tutte le cose che dicevano gli insegnanti, soprattutto le lezioni di matematica. Tutti pensavano che fosse inutile, finché un giorno lei si è girata e mi ha detto: “Grazie, Emilia”». 

Col passare del tempo la motivazione non è venuta meno e la stanchezza non ha preso il sopravvento: «Anzi mi sono sempre più appassionata: scopro sempre mondi nuovi e mi arricchisco. Ogni bambino che mi viene affidato mi apre un orizzonte e la scuola diventa un percorso di vita».

L’ultimo scolaro che Emilia ha seguito per un intero ciclo, fino allo scorso anno, si chiama Teo, è un bimbo tetraplegico con difficoltà nell’apprendimento. «La diagnosi diceva che avrebbe fatto molta fatica a imparare a leggere e a scrivere, invece a metà della prima già leggeva le prime parole e in quinta mi ha chiesto di insegnargli a scrivere le mail. La prima l’ha mandata alla preside, che si chiama Lorenza Patriarca e ha una sensibilità speciale per i progetti di inclusione, poi ha cominciato a mandare una mail a settimana al sindaco di Torino denunciando le barriere architettoniche che incontrava sulla sua strada. Il suo testo cominciava sempre così: “Come fa un bambino come me…”. Gli ha risposto l’assessore alle Politiche Sociali, Jacopo Rosatelli, che lo ha invitato ad un incontro in Comune. Prima di andare Teo ha lavorato molto e ha stilato un lungo elenco di barriere architettoniche. Era preparatissimo, molto elegante ed era felice di aver trovato ascolto. È passato un anno, ma quando guardo la foto di quell’incontro vedo quante possibilità possono sbocciare: non doveva saper scrivere e invece è riuscito a farsi ascoltare dal sindaco».

Teo con suo padre insieme all’assessore alla Cura della Città, Sevizi anagrafici e Protezione Civile di Torino Francesco Tresso e all’assessore alle Politiche Sociali del Comune di Torino Jacopo Rosatelli

Il libro invece è dedicato alla storia di Alessio: «Non avevo mai seguito un bambino con autismo, era la prima volta ed ero molto preoccupata». Durante l’estate, prima dell’inizio della scuola, Emilia va in biblioteca e si procura tutti i testi che trova sull’autismo, scritti da genitori, insegnanti e medici. «Sono partita per il mare con una borsa piena di libri, articoli di riviste e fogli stampati per capire cosa avrei dovuto fare».

È stato il percorso più difficile e sfidante della sua carriera, tanto che, alla fine, si è convinta a raccontarlo, nella speranza che possa essere di aiuto per quei bambini con gravi disabilità dello sviluppo, che sembrano avere poche chances di imparare: «Ora che sono giunta al termine della scuola primaria – scrive –  e che Ale è sbocciato nella sua bella umanità ed è riuscito anche a imparare molte cose, tra cui leggere e scrivere, usare il computer e iniziare relazionarsi con i compagni con le altre persone, sono certa della bontà dell’esperienza vissuta».

Un capitolo del libro è dedicato al nuoto, perché Emilia convinta che l’acqua potesse essere un elemento contenitivo per Alessio, lo aveva iscritto a un corso in piscina: «All’inizio correva intorno e tirava le cose in acqua. L’istruttore era sconfortato e una mattina mi ha chiesto: “Perché lo ha portato?”. “Perché impari a nuotare” gli ho risposto. Entrava in acqua solo se aveva salvagente, braccioli e tavoletta e anch’io dovevo essere in vasca con l’istruttore. Dopo due anni di corso ha imparato a nuotare benissimo e ad andare sott’acqua». 

A quel punto Emilia e le altre insegnanti hanno deciso di coinvolgere nel corso tutta la classe ed è stata un’esperienza felice per tutti. «L’aiuto e la collaborazione dei compagni è indispensabile: sono loro che possono veramente insegnare e motivare la relazione e lo scambio reciproco. L’alunno con disabilità ha bisogno, come tutti, di amici, di divertirsi, di giocare anche se non sa come fare. I compagni di Alessio gli hanno insegnato a giocare a calcio, a nascondino e altri giochi, con pazienza e tenacia. E tutto questo fa miracoli».

Alessio, lo scorso anno, ha superato la maturità in un istituto tecnico del turismo.

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