«Quando ho scoperto di avere una forma aggressiva di glaucoma, venticinque anni fa in Bosnia, ho provato rabbia, un senso di rabbia profonda all’idea che la mia vista abbia un orizzonte definito, che la mia possibilità di fotografare non sia per sempre ma a tempo». Paolo Pellegrin, il più importante fotografo italiano in attività, ha reagito ribellandosi: «Da quel momento ho accettato ogni lavoro, non mi sono mai tirato indietro e ho cercato di fotografare al massimo». Finché non è arrivato il virus.
«A metà febbraio ero in Australia, stavo fotografando le conseguenze dei grandi incendi, un modo per dare seguito al lavoro sul cambiamento climatico, che ho cominciato testimoniando lo scioglimento dei ghiacci dell’Antartide. Dopo il ghiaccio, il fuoco: gli estremi della ribellione della natura. Stavo lavorando sulle tracce e sui resti lasciati dai roghi. Passato il momento della cronaca volevo raccontare la devastazione che gli incendi avevano lasciato, la difficoltà di tornare a una vita normale. Mentre ero immerso in quei paesaggi lunari ho saputo che il Covid-19 aveva cominciato a colpire in Italia e in Europa. Sono corso subito all’aeroporto, avevo paura di restare bloccato dall’altra parte del mondo, volevo tornare a casa prima che le nazioni cominciassero a chiudersi».
Paolo abita a Ginevra, dove la moglie Kathryn Cook lavora alla Croce Rossa Internazionale: hanno due bambine, Luna di 11 anni ed Emma di 7. La sua casa è lì, ma non si ferma mai più di qualche settimana, i suoi reportage sono continui, dall’Africa a Guantanamo, da Haiti alla Palestina, dalla Siria ai ghiacci polari, dal Giappone all’Iraq. Sono trentacinque anni che corre senza sosta. Questa volta invece si è fermato per tre mesi, il tempo più lungo passato a casa da quando era uno studente universitario.
«Ho portato mia moglie e le mie figlie in una fattoria in montagna. Per la prima volta nella mia vita ho scelto di fermarmi, di non partire per lavorare sul coronavirus, di non inseguire le grandi storie della cronaca ma di stare con loro. Di fronte all’ignoto non volevo che questo tempo potesse essere un trauma per le bambine, ho sentito il bisogno di stare con loro e sono felice di aver fatto questa scelta».
Ne è nato un lavoro sulla famiglia, che non è soltanto un diario della quarantena ma qualcosa di molto più universale: «Come ogni genitore ho sempre fotografato le mie figlie con l’iPhone, ma questa volta ho fatto un lavoro diverso, mi sono dedicato al “noi”. Ho cercato nel dettaglio, in ogni particolare della quarantena, qualcosa che riflettesse le emozioni collettive di questo momento». Ci sono i giochi dei bambini, solitari come in ogni famiglia in quarantena, ci sono i bicchieri del vino, le ombre, gli spazi vuoti e molta assenza.
Ho incontrato Paolo a Torino, alla Reggia di Venaria, dove stava allestendo la più grande mostra mai fatta sul suo lavoro che ha inaugurato ieri e resterà aperta sino alla fine di gennaio del 2021. Abbiamo camminato tra le sue foto, in mezzo agli operai che finivano di fissare le immagini alle pareti. Ci siamo fermati di fronte ai suoi lavori storici – l’Iraq, il Libano, la Palestina, il muro tra Messico e Stati Uniti che ha percorso da Tijuana a Sonora – e abbiamo discusso del suo modo di vedere il mondo. Il giorno prima era andato a trovarlo Gianni Berengo Gardin, un monumento della fotografia che sta per compiere novant’anni, secondo cui «l’occhio di Paolo sovverte tutte le regole: in controluce, mosso, sfocato, storto, ma sempre in perfetta armonia ed equilibrio».
La mostra è la più bella mai dedicata al suo lavoro, riprende e allarga quella straordinaria del Maxxi di Roma e non finisce di stupire per la quantità di registri che Pellegrin è capace di usare, per come sa dare voce alle storie umane.
C’è un muro di piccoli ritratti scattati nel Nord della Nigeria alle ragazze liberate o fuggite dal rapimento di 276 studentesse compiuto dai miliziani di Boko Haram nella cittadina di Chibok. Paolo è riuscito a conquistarsi la fiducia di venti di loro, ospiti di un centro di supporto psicologico, e le ha ritratte in modo da rispettare al massimo la loro immagine. Le loro foto formano un’unica composizione che restituisce il senso di un dramma collettivo.
Così è il lavoro su Gaza, una catalogazione sistematica del prezzo pagato dai civili nei bombardamenti israeliani. Ogni ferito, che normalmente è solo un piccolo numero in una notizia di cronaca, è ritratto con le conseguenze delle sue ferite e di ognuno ha raccolto la storia. Un lavoro che porta avanti da anni, il cui valore sta nella testimonianza costante, nella capacità di registrare un fenomeno senza fine.
I lavori più recenti di Paolo però non parlano solo di guerra, terremoti, tsunami, ma anche di sensibilità per l’ambiente e per l’armonia del pianeta. Lo si vede nelle foto delle aquile della Norvegia, un inno alla libertà e alla bellezza, o nelle immagini dei cento bonsai del più vecchio maestro di Kyoto. «Mi ha mostrato i suoi figli prediletti, piante antiche che ho ritratto e poi stampato al platino, un metodo altrettanto antico ed eterno. Qualcosa di bello deve restare».