Che cos’è la cosa più importante nella vita? Per avere questa risposta interrogo e tormento chi ha i capelli bianchi, chi ha molto vissuto, chi porta con orgoglio le sue rughe. Ferdinando Scianna, il primo fotografo italiano ad entrare nell’agenzia Magnum, mi ha risposto così: «Conquistarsi il tempo per le proprie passioni. Per tutta la mia vita, ogni volta che ho guadagnato dei soldi li ho usati per comprarmi del tempo. Che poi impiegavo per deambulare e reagire ad ogni immagine che si presentava di fronte a me, insomma, per fotografare: ecco la felicità assoluta».
Conquistarsi il tempo per le proprie passioni. Per tutta la mia vita, ogni volta che ho guadagnato dei soldi li ho usati per comprarmi del tempo. Che poi impiegavo per deambulare e reagire ad ogni immagine che si presentava di fronte a me, insomma, per fotografare: ecco la felicità assoluta: «La fotografia mi ha dato molto di più di quanto io abbia dato a lei, non mi capacito di tutta questa fortuna».
Scianna è noto per essere burbero, per parlare molto chiaro, invece lo trovo di ottimo umore, si sta facendo il caffè e mi travolge di passione. Comincia a raccontarmi della mole di scatti che ha realizzato e conserva: un milione e 200mila foto, di cui 55mila catalogate.
«Incredibile? No, normale, perché ad un certo punto il mestiere diventa ossessione».
Per capire cosa significhi per lui “l’ossessione” bisogna fare un lungo passo indietro. Un giorno un giovane fotografo chiese al giornalista Aldo Santini: «Ma come lavora Scianna?» e quello rispose: «Molto rapidamente perché dopo deve andare a fare le sue foto». Perché Scianna divideva il suo lavoro in due: “le foto per campare e quelle per vivere”.
«Ho avuto anche senso di colpa di fare le due cose, mi sembrava peccato prendermi del tempo per la passione, oggi invece penso il contrario: ho dedicato troppo poco tempo alla dimensione ludica. Sono stato un po’ fregato dal senso del dovere: dovevo dimostrare a mio padre che anche facendo il fotografo si poteva guadagnare il pane. Mio padre era distrutto dall’idea che non fossi un ingegnere o un medico, per lui lo studio era riscatto sociale. Tanto che se mi beccava a leggere un libro non di scuola mi puniva e minacciava di buttarlo via».
Così quando a soli 22 anni pubblicò il suo primo libro, con i testi di Leonardo Sciascia, la sua famiglia reagì con “inquietudine” e lo accusò di essere stato influenzato da uno scrittore che consideravano un “pericoloso sovversivo”.
«Per me Sciascia è stato tutto, un amico, un padre e molto di più». Nell’autobiografia ne parla molto e si capisce che perfino per Scianna, che ha lavorato tutta la vita con le immagini, la parola scritta è fondamentale: «La mia ossessione parallela è stata fare i libri: se una cosa non finisce in un libro non esiste». Forse per questo vive circondato dalla carta, 5500 volumi ordinati e catalogati. Ha avuto molti amici scrittori, da Consolo a Milan Kundera, a Manuel Vasquez Montalban, e, osservandoli, ha sempre coltivato la stessa domanda: «Mi interrogo sul mistero della trasformazione di una cultura, di un’idea o di un carattere in un libro».
Gli dico che noi umani ci poniamo lo stesso quesito quando ammiriamo la capacità di un fotografo di cogliere qualcosa che non saremmo mai stati capaci di vedere. Come è stato possibile cogliere l’attimo perfetto?
«La pretesa di racchiudere un istante significativo in una fotografia è assurda, un’ossessione, perché non dipende da te. Si sviluppa ed è resa possibile attraverso un numero enorme di errori. Ogni volta che mi guardo indietro e apro l’archivio scopro la quantità pazzesca di brutte fotografie che ho fatto, di scatti che non hanno lasciato nessun segno. Ma poi non è quello ciò che ti resta. La vita è piena di amicizie finite, tradimenti, giornate storte o pasti cattivi, ma poi ti ricordi di quella pasta con le sarde indimenticabile o di quella serata speciale».
Provo a chiedergli quale sia la fotografia in cui si ritrova di più, ma si sottrae: «In realtà quello che mi rappresenta meglio sono le cattive foto perché sono la testimonianza di una ricerca continua».
E poi mi risponde citando Cartier Bresson: «Una buona fotografia è il tentativo di rispondere contemporaneamente al momento in cui ti viene posta la domanda». E mi racconta un aneddoto su Jacques Henri Lartigue, pittore e fotografo francese nato a fine Ottocento: «Nel 1902, quando ha solo sette anni, riceve in regalo una macchina fotografica dal padre e questa diventa la sua mania. Un giorno esce di casa con la zia e vede una donna bellissima avvolta in una stola di pelliccia scendere da una carrozza.
È folgorato da quell’immagine ma non ha la macchina fotografica. Torna a casa e gli viene la febbre, la madre lo mette a letto pensando che abbia preso freddo, invece è lo strazio del bambino fotografo, il dolore per l’immagine perduta che non avrebbe lasciato traccia. Questa è l’ossessione di un fotografo: ciò che non riesco a fotografare allora non esiste».
«Non esiste una foto della vita, dipende dai momenti, e negli anni le immagini cambiano. A dire la verità non mi è interessato tanto avere un’immagine assoluta, ma più toreare con il caso, rimanere aperto alla possibilità e alla domanda. In un certo momento della vita una foto c’è stata, pensavo “l’ho imbroccata” ma ero influenzato dall’opinione degli altri, a cui io sono sempre molto attento.
Era una foto del mio primo libro, in cui si vede un bambino seminudo afferrato e sollevato da un prete durante una processione religiosa, con la mamma e la nonna che lo spingono affinché tocchi la statua del santo».
La scattò nel 1964 a Tre Castagni, un paesino sotto l’Etna, faceva parte del lavoro sulle feste religiose in Sicilia. «La gente mi diceva: “Tu sei quello della fotografia del bambino” e così tu ti identifichi e la fai tua».
Ferdinando sta un po’ in silenzio, capisco che sta passando in rassegna una vita di immagini e aspetto, poi riprende a parlare: «Ecco qual è la foto: quella del cane indiano che mi seguiva a Benares. Un cane che si morde la coda per togliersi le pulci. Forse continua a piacermi perché quando avevo 18 anni, a Bagheria, ne avevo fatta una simile di un cane che si attorciglia e prende forma scultorea. La vita di un fotografo è il tentativo costante di andare a riempire piccoli incavi di immagini che aspettano di essere completati».
Mi racconta che in questo anno di pandemia ha fatto un “viaggio archeologico” nella sua vita: «Un anno di arresti domiciliari, un anno di peste. Io ne ho approfittato per fare una specie di grande repulisti, ho buttato via più di una tonnellata di carta assurdamente accumulata. Mi è servito molto, è stato anche una specie di alleggerimento spirituale. Il primo periodo l’ho vissuto bene, ma dopo un’estate di illusioni la seconda fase è stata terribile e alla fine claustrofobica. Credo che sia una cosa comune: pretendiamo di avere una vita intima, ma abbiamo scoperto di quanto siamo nutriti dall’esterno, di quanto la socialità sia fondamentale».
Ora capisco la ragione del suo buon umore, ha un solo nome: vaccino. «Dopo quella puntura ho preso un biglietto aereo. Il mio desiderio più grande in questi mesi era di tornare nella piccola casa che ho in Andalusia. È a due chilometri dal mare, in campagna, in un piccolo paesino di minatori che nella follia del dittatore Francisco Franco dovevano cavare oro, ne trovarono poco e io lì torno ogni estate da 25 anni. È il luogo dove ricarico la batteria. Non si fa niente, ma si fa tutto, si mangia, si legge, si nuota. Si guarda il mare».
Gli chiedo come ci sia arrivato. «Ci sono passato e ho capito. Quante donne si incontrano nella vita? Poi un giorno uno entra in un caffè, ne incontra una e quella è amore. Così è successo con questo paesino andaluso, senza rendermene conto, mi ha affascinato e conquistato».
Ma non sarà che sta vicino al mare come il paese dove è nato e ha la stessa luce? «Certo, mi ricorda molto la Bagheria di quando ero bambino e c’è tanta similitudine tra l’Andalusia e la Sicilia. Ci vivono dei personaggi molto affascinanti, sono strani e truculenti, e ho trovato un paio di amici. Cosa eccezionale perché è difficile fare nuovi amici alla mia età. Sai, dalla Sicilia sono scappato a gambe levate, convinto che non mi offrisse nessuna occasione, poi sono stato tormentato dalla nostalgia, ma ogni volta che torno dopo qualche giorno senti il bisogno di fuggire. Forse hai ragione, avevo bisogno di una Sicilia che non è la Sicilia, che non mi ricatti dal punto di vista dei ricordi, dei rancori e delle dolcezze».
«Certo la luce fa la differenza. Io ho sempre amato Milano, dove vivo, ma se qui c’è una bella giornata e prendo l’aereo e scendo a Catania, quando si apre il portellone sembra che abbiano acceso una lampada da 10mila. In Sicilia una bella giornata è un’altra cosa. E pensare che noi fotografiamo il sud nei neri, in una dialettica tra luce e lutto». Ecco la sintesi della sua vita.