«Ho fatto il pediatra per colpa di un ufficiale nazista. Io sono nato il 20 giugno del 1946 ma mia sorella è del ’43, nata nei giorni dei grandi bombardamenti alleati su Genova. Mia madre dopo alcune notti passate a nascondersi nelle gallerie dell’autostrada era scappata sulle colline, aveva un pancione immenso e quando venne il giorno del parto non riusciva a mettere al mondo quella bambina che, avrebbe scoperto poi, pesava ben cinque chili e mezzo. Non ce la faceva e corsero a chiedere aiuto, non si trovò nessun medico finché un tenente delle SS disse di essere un dottore e la fece partorire. Mia madre era terrorizzata e per tutta l’infanzia mi ha continuamente ripetuto: “C’è bisogno di pediatri, è il lavoro più utile del mondo, altrimenti tocca chiedere ai soldati”. La mia strada era segnata e, esattamente cinquant’anni fa, mi sono laureato e sono entrato qui al Gaslini».
Pierluigi Bruschettini è in pensione da 3 anni ma nel suo ospedale continua ad entrare tutti i giorni, lo fa come presidente della “Band degli Orsi”, l’attività che ha fondato venticinque anni fa insieme ad altre 32 persone che lavoravano al pediatrico Gaslini come tecnici, infermieri e medici. «Sentivamo il bisogno di fare qualcosa che andasse oltre alle cure, volevamo stupire i bambini, farli ridere e giocare e ascoltare i genitori. In Italia esisteva già un luogo in cui questo accadeva, era il San Gerardo di Monza, dove il pediatra Momcilo Jankovic, detto “Il dottor sorriso”, insieme a un altro pioniere delle cure ai bambini come Giuseppe Masera, avevano messo in atto un approccio nuovo e rivoluzionario. Andai a studiare quello che facevano e proposi di portarlo a Genova».
Era un modo nuovo di relazionarsi e di curare oltre alla malattia anche la sofferenza psichica dei piccoli pazienti a cui nel 2001 venne dato anche un nome e una struttura: la “Gaslini Band Band”, che successivamente sarebbe diventata la “Band degli Orsi” (www.labanddegliorsi.it). «Ma quando apri un canale di ascolto ti rendi subito conto che le necessità sono molte di più: i genitori che accompagnavano i figli, moltissimi non erano di Genova ma venivano da tutta Italia, chiedevano dove poter dormire, farsi una doccia, fare una lavatrice, collegarsi a internet. Ogni sera andando a casa, proprio di fronte all’ingresso dell’ospedale, vedevo un cartello “vendesi”, era un grosso locale a piano terra. Decidemmo di comprarlo con un mutuo ma lì avvenne il primo miracolo: in pochissimo tempo un gruppo di amici lo estinse. Così pensammo di allargarci e prendemmo un appartamento di due camere e poi un altro da tre, finalmente avevamo dove ospitare le famiglie e ci sembrava di essere diventati un grande albergo…».
Le camere, nel frattempo, sono diventate venti ma non bastano mai e sono sempre al completo: «Avevamo bisogno di fare un salto, di un luogo dove poter ospitare le famiglie, accoglierle, ascoltarle, fare attività di sostegno, di studio e ricreative. La grande occasione è arrivata dal Comune di Genova che ci ha concesso di ridare vita ad un luogo storico che si trova proprio sotto l’ospedale, di fronte alla spiaggia di Sturla: la casa rossa». Inaugurata nel 1899 come cantiere dove si costruivano i gozzi genovesi a vela, la casa rossa era tutta in legno ed era stata progettata con uno strano stile nordico ispirato ai pescatori delle isole Lofoten. Dopo la Guerra era diventata una fabbrica di utensili in acciaio per le navi e da un paio di decenni era in stato di abbandono, con il destino di essere abbattuta per farne un parcheggio. Ora risorgerà completamente nuova, ma rispettando il disegno originario, in legno di abete e sempre dipinta di rosso.
«Volevamo dare un vero senso di casa, al secondo e al terzo piano ci saranno dieci grandi camere più un mini appartamento, molte con vista sul mare, saranno bellissime – sottolinea con passione Pierluigi – perché queste persone meritano di essere accolte al meglio. Se riusciamo in questa impresa lo dobbiamo a realtà capaci di fare squadra come la Compagnia di San Paolo prima di tutti, la Banca Passadore e poi Ikea e Leroy Merlin. Ma continueremo ad aver bisogno di tutti per non lasciare sole le famiglie che si trovano ad affrontare situazioni che mai avrebbero immaginato».
Il vulcanico Bruschettini l’ho conosciuto all’inizio di luglio a Milano ma subito si è fatto promettere che sarei andato a trovarlo a Genova, voleva mostrarmi tutto quello che fanno e così l’ho raggiunto. Per oltre due ore mi ha portato sulla sua Vespa da una parte all’altra, poi finalmente quando siamo arrivati alla “Tana degli orsetti”, uno spazio con giardino che funziona come asilo gratuito per i bambini che vengono per fare terapie e controlli e per le loro sorelle o fratelli, ha accettato di sedersi e lasciarsi intervistare. Prima però ha voluto raccontarmi che il primo ad essere accolto nel 2015 nella tana, che è ospitata presso l’antica abbazia di San Gerolamo ed è gestita dalle educatrici dell’associazione Macramè, è stato un bimbo eritreo di cinque anni il cui fratello maggiore era appena stato ricoverato: «La madre non sapeva dove metterlo e qui è dove ha trovato degli amici e imparato ad andare in bicicletta».
Pierluigi non guarda mai indietro, forse gli sembra di perdere tempo e poi non è mai soddisfatto, ma io volevo sapere cosa è cambiato in questo mezzo secolo da pediatra. Non ha dubbi: «Sono sempre stato con i neonati piccoli, quelli che nascono prematuri, ma quando ho iniziato la possibilità di sopravvivere era solo per quelli che pesavano almeno un chilo e mezzo. Non avevamo mezzi adatti, gli aghi erano troppo grossi per le loro minuscole vene, così le cannule, erano situazioni terribili. Poi c’è stata Calogera, nacque di mezzo chilo ma sopravvisse per tre mesi e questo ci servì per capire che si poteva fare. Oggi si possono salvare anche quando nascono di 500 grammi. Inoltre, abbiamo capito sempre di più sull’importanza delle esperienze prenatali, su come questi fenomeni influiscano sulle patologie che sviluppiamo nella vita. Nella pancia si respira la sofferenza di una madre che subisce violenze, questo significa nascere con la paura. Di tutto questo dobbiamo occuparci oggi».
Bruschettini ricorda anche quando arrivò l’Aids e l’immunodeficienza si trovava nei neonati di madri sieropositive: «Sembrava una situazione senza uscita ma oggi le cure durante la gravidanza permettono che vengano al mondo sani. Quanta strada abbiamo fatto».
Finalmente mi dice che è soddisfatto, allora mi permetto di chiedergli perché porti sempre la cravatta con il fiocco a farfalla: «Ho due risposte per spiegare il cravattino da vecchio pediatra, la prima è vera ma non la scrivere: è perché i bambini mi pisciavano regolarmente sulla cravatta e non hai idea di quante ne ho dovute buttare! La seconda è per amore di mio nonno Luigi, mazziniano, che ha portato tutta la vita il cravattino nero repubblicano. È stato il mio maestro, lavorava all’Ansaldo e ha costruito i primi aerei in legno e tela. Uno dei ricordi più cari che ho sono le sere passate sulle sue gambe ad ascoltare Wagner, il Parsifal e Lohengrin, la sua opera preferita. Mi piace pensare che il cravattino sia l’ultimo omaggio all’uomo che mi ha cresciuto».