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2 Aprile 2020

Sulla buona strada

Molte attività rischiano di fallire per la crisi generata dalla pandemia. Eppure ci sono storie di speranza. Ci sono persone che, con lungimiranza e spirito d’innovazione, sono riuscite a preservare il proprio lavoro. Ecco tre esempi
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Ogni giorno penso ai lavori che sono congelati, a quelli che forse non torneranno più, ai negozi che rischiano di non riaprire, ai progetti che si stanno spegnendo. Lo faccio ripercorrendo la nostra vita di prima e fermandomi di fronte a ogni azione che era normale ma che ora è diventata speciale nella sua assenza. Me ne vengono in mente a decine, di ogni tipo, penso ai ristoranti e ai bar che devono pagare l’affitto dei locali vuoti, che hanno mutui sulle spalle e che non sanno quando ripartiranno ma già sanno che, se sarà con metà dei coperti o senza consumazioni al banco, allora non staranno in piedi. Penso a chi produce e a chi vende fiori, a chi lavorava nei parchi, negli eventi sportivi, nei teatri, ai barbieri e alle parrucchiere (ma a un certo punto dovremo pur tagliarci i capelli), ai fisioterapisti, agli insegnanti di musica, ai librai… E potrei continuare. Ci sono centinaia, migliaia di storie di donne e uomini che non dormono la notte perché il loro lavoro rischia di essere perduto. Ognuna di queste storie meriterebbe di essere raccontata. Oggi ho scelto però tre storie che vanno in direzione opposta, vi parlerò di chi ha trovato una strada o, spesso senza rendersene conto, si era messo per tempo su un binario giusto. Storie normali, che possano essere di ispirazione e di incoraggiamento. Perché un giorno tutto questo sarà alle nostre spalle.

La farina

©Figure

Come va? «Molta fatica, davvero dura». Gli rispondo che lo capisco, la crisi si fa sentire per tutti. «No, no, troppo lavoro, non riesco a starci dietro, troppi ordini». Conosco Aldo Bongiovanni da sette anni, da quando raccontai la sua storia nel libro “Non temete per noi, la nostra vita sarà meravigliosa”. Ero rimasto affascinato dal suo percorso: aveva fatto solo la terza media, poi era andato a lavorare con il padre nel mulino di famiglia a Pogliola di Mondovì, ma quando era maggiorenne da poco il papà gli annunciò che avrebbero chiuso, nessuno comprava più le loro farine, non erano un mulino industriale e nemmeno artigianale e non c’era più spazio per loro. Lui non si arrese, convinse la madre, all’insaputa del padre, a finanziargli l’acquisto di due macine a pietra e si mise alla ricerca di grani antichi, biologici, e a fare le farine con i legumi e la frutta. All’inizio non funzionava, il suo piccolo territorio di provincia non poteva dare la risposta sperata, allora con l’aiuto di due vecchi compagni di scuola, che studiavano Ingegneria informatica al Politecnico di Torino, aprì un negozio online dove vendere la farina. Questo cambiò completamente la sua vita e quella del mulino.

Era il 2004 e aveva scelto la strada dell’innovazione ma non avrebbe mai immaginato che questo sarebbe stato cruciale 16 anni dopo: «Da quando è cominciata la quarantena mi si sono moltiplicati gli ordini di farina, se prima ne ricevevo 80 al giorno adesso sono 800, dai privati come da Amazon. Non sappiamo più come fare, lavoriamo giorno e notte su tre turni, siamo in 22. Con la complessità di seguire tutte le regole di sicurezza, guanti, mascherine, gel e distanze di sicurezza».

Aldo mi parla di come siamo cambiati in poche settimane: «Tutti vogliono la farina per fare le torte, il pane e la pizza in casa, anche chi non l’aveva mai fatto in vita sua ora ci prova. E il lievito è diventato come il caviale. Sembra di essere tornati al tempo della guerra». Mi racconta di quanto l’obbligo di stare in casa stia modificando i nostri comportamenti: «Le diete sono finite, non interessano più a nessuno, torneranno dopo ma adesso sembrano dimenticate. Io ho il magazzino pieno di bacche di goji, semi di chia e crusca di avena, fino a metà febbraio li vendevo benissimo, adesso non li ordina più nessuno. Anche le farine particolari, dal farro al kamut, a quelle biologiche, le ho spostate dal magazzino principale, sono prodotti per i tempi di vacche grasse, sono le necessità figlie del benessere». Parla veloce, tutto di un fiato, non ha tempo: «Adesso devo scappare, staremo tutta la notte a confezionare e a preparare i pacchi da spedire».

Pesche e lavanda

Lucca Cantarin al lavoro nel suo laboratorio di pasticceria di Arsego, nel Padovano

A convivere con le disavventure Lucca Cantarin ha imparato appena nato, quando 43 anni fa all’anagrafe misero un “c” di troppo nel suo nome: «Forse i miei genitori erano un po’ ubriachi e felici o forse l’errore fu dell’impiegato, ma io ho cominciato subito a distinguermi». Lucca fa il pasticcere ad Arsego, venti minuti di macchina da Padova e meno di quaranta chilometri dall’epicentro veneto del coronavirus di Vo’ Euganeo. Dieci anni fa fece impazzire la famiglia quando decise che la priorità era aprire un canale di vendite online: arrivava un ordine all’anno a confermare che erano tempo e soldi sprecati. Poi sette anni fa fu ancora peggio quando decise di assumere un grafico specializzato nel digitale per curare i social. Non ascoltò le critiche e tirò dritto.

Il primo aprile sul sito della Pasticceria “Marisa” è comparso l’avviso che il servizio di vendita online sarebbe stato sospeso a mezzogiorno e non era uno scherzo: «Non eravamo più in grado di stare dietro agli ordini, abbiamo fatto 500 spedizioni solo negli ultimi due giorni. Il sito ha tenuto in vita la nostra attività, abbiamo avuto degli introiti che non erano previsti. Ho prodotto mille e cinquecento colombe e non mi vergogno a dire che le vendite online mi hanno salvato. Non ci sono guadagni ma riesco a restare in piedi, a salvare i posti di lavoro di tutti i ragazzi e a pagare i fornitori».

Insieme a Lucca lavorano anche la sorella Erica, che si occupa del confezionamento e delle spedizioni, e la mamma Marisa, che da ragazza era un’operaia, faceva la magliaia, e la sera e nei fine settimana aiutava il padre che aveva un carretto dei gelati. Nel 1982 si licenziò e decise di aprire una gelateria; 20 anni più tardi, il figlio, dopo aver studiato alla scuola alberghiera e aver fatto esperienza in giro per l’Europa, aggiunse il laboratorio di pasticceria.

Lucca è stato un precursore dell’online nella pasticceria artigianale, sta per assumere una seconda persona per essere più forte sui social, Facebook, Instagram ma anche WhatsApp (così comunica a tutti i suoi clienti i prodotti nuovi in occasione di ogni festività: «L’anno scorso per la festa della mamma abbiamo venduto 58 torte in quaranta minuti solo con la chat del telefono»), ma quando lo chiamo ha le mani in pasta. «È obbligatorio, mai smettere. Tutti i panettoni e le colombe passano dalle mie mani, l’ultimo passaggio è quello fondamentale, l’ultimo impasto. Bisogna usare tutti i cinque sensi: il gusto per sentire che non sia acido, il tatto per capire se è troppo caldo o troppo unto, l’udito per ascoltare il rumore dell’impastatrice, da cui capisco la compattezza del prodotto, l’olfatto per cogliere se ha tutti i profumi che richiede un lievitato e infine la vista, se si sfalda ci si ferma subito. Non si può sbagliare nemmeno una volta: una colomba la mangiano in sette persone, se non va bene, in un colpo solo ci si fanno sette nemici».

L’ultimo Natale ha fatto 12mila panettoni, adesso è felice per le sue 1.500 colombe, non solo quella tradizionale ma soprattutto la sua specialità: quella alle pesche e lavanda. Senza dimenticare i dolci tradizionali, la Veneziana e la Padovana, una focaccia dolce, compatta, che si cuoceva il lunedì per tutta la settimana: «I bambini la inzuppavano nel latte, gli adulti nel vino. È ancora così».

La vite

La vigna dell’azienda “Braida” a Rocchetta Tanaro, in provincia di Asti

In tempi di crisi sono necessari segni di pace, piantare una vigna è qualcosa di antico, significa scommettere sulla terra, significa coltivare il futuro. «Le notizie belle sono due: la prima è che piantiamo una nuova vigna, e questo è un segno di coraggio. La seconda è che la piantiamo di Barbera e qui ci vuole ancora più coraggio». Raffaella Bologna porta avanti una tradizione di innovazione: dal padre Giacomo, l’uomo che ha reinventato la Barbera in Italia, ha imparato a guardare lontano e a non avere paura. La loro azienda si chiama “Braida”, dal soprannome che il bisnonno Giuseppe si era conquistato giocando a pallone elastico sulle piazze dei paesi, e sta a Rocchetta Tanaro, in provincia di Asti. Cominciarono a fare diversamente dagli altri 35 anni fa, quando l’enologia piemontese e il Barbera sprofondavano travolti dallo scandalo del vino al metanolo. Invece di fare un passo indietro rilanciarono e crearono delle Barbere più moderne, fresche e pulite, la più famosa delle quali è il Bricco dell’Uccellone.

«Ma oggi è il vitigno più espiantato perché il più esposto e sensibile alla flavescenza dorata, una malattia delle viti, la peste dell’agricoltura. Così i contadini lo tolgono perché è troppo fragile, faticoso e costoso. Io invece lo pianto perché mi sembra un gesto d’amore e di speranza». Raffaella ha preso il posto del padre nel 1990, aveva appena finito di studiare Enologia ad Alba. Quell’estate Giacomo Bologna si ammalò e venne ricoverato a Milano. Dal letto di ospedale seguiva la vendemmia e parlava tutti i giorni al telefono con la figlia per consigliarla in ogni passaggio in vigna e poi in cantina. Sarebbe mancato il giorno di Natale. «I ricordi di quel periodo sono pieni di dolore ma anche di forza e di amore, da lontano mi guidava e mi ha trasmesso questa idea che nei momenti peggiori bisogna tirare fuori il massimo dell’energia vitale».

La nuova vigna è accanto all’antica cascina San Bernardo, che per secoli è stata dei monaci benedettini e serviva come bivacco per chi percorreva la via Francigena: «I santi portano bene non solo all’acqua ma anche al vino». Anche la cascina è stata restaurata per diventare un bed and breakfast, con sette camere e uno spazio panoramico all’aperto per le degustazioni. Doveva inaugurare il 15 aprile, i primi ospiti sarebbero stati americani, naturalmente resterà vuoto per parecchio tempo, ma Raffaella non si scoraggia, il tempo della campagna è sempre stato più lento e paziente: «Inaugureremo quando il virus ce lo permetterà, spero a settembre, con i profumi della vendemmia. L’importante è continuare a coltivare il futuro con rispetto e premura».

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