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28 Maggio 2020

Storia di un pastore e dei suoi coltelli

Gioele, 31 anni, ha trovato la libertà in mezzo alla natura, nelle Langhe. Con un gregge di pecore e un caseificio. Ma, soprattutto, con un laboratorio dove ha trasformato in lavoro la passione per le lame giapponesi. Costruendo modelli unici ed eterni
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«Per noi la vita è stata quella di sempre, anche in questa quarantena, e quando mi addormento la sera la mia preoccupazione più grande continua a essere il lupo, non il coronavirus». Gioele Terlizzi ogni mattina alle sei sale in punta alla collina per mungere le sue 130 pecore: «In questi giorni sono sullo spartiacque tra le valli Belbo e Bormida, sul confine tra Piemonte e Liguria, un posto bellissimo». Poi ci torna alle tre del pomeriggio e resta con loro fino a sera. Ci sono luoghi dove la pandemia non ha dettato le sue regole e non ha stravolto tempi e abitudini, luoghi dove i riti antichi si ripetono con metodo ogni giorno.

Il gregge di pecore di Gioele Terlizzi, al pascolo nelle valli sul confine tra Piemonte e Liguria

Gioele è un ragazzo di città, nato a Torino 31 anni fa. Si diploma tornitore, lavora nella fabbrica di guarnizioni industriali della madre, fugge in montagna dove diventa maestro di sci, ma una grande passione lo accompagna sempre, quella per i coltelli e l’affilatura. Così prende un furgone e comincia a fare l’arrotino, intanto studia le lame giapponesi e i serramanico dei pastori italiani. Trova pace quando decide di recuperare la vecchia casa dei nonni e così ferma il furgone a Bosia, un comune di 180 abitanti in Alta Langa, zona di lotta partigiana, dove i nazisti imperversarono nell’autunno del 1944, e terra di nocciole e robiole. E si mette a costruire coltelli. Ma non è solo, accanto a lui c’è Carolina che ha conosciuto in Liguria e che ha abbandonato Milano per seguire lo stesso sogno di faticosa libertà. A luglio nascerà Margherita e insieme a lei partirà l’azienda agricola che prenderà lo stesso nome.

Il nome di Gioele invece l’ho sentito la prima volta nella Langa del tartufo e del Barbaresco, a proposito dei coltelli artigianali che alcuni ristoranti stellati mettono in tavola quando servono la carne. Coltelli fatti a mano, uno diverso dall’altro, che spingono i turisti stranieri – svizzeri e americani – a cercare il ragazzo che li produce per portarseli a casa. Non ha un sito, non è sui social: «Mi concentro sul fare più che sul far sapere». Il primo ad accorgersi di lui è lo chef Maurilio Garola, quando stava per aprire a Barbaresco il ristorante “Campamac” e cercava per la sua tavola qualcosa di originale e distintivo. Al resto ci ha pensato il passaparola.

Gioele Terlizzi, 31 anni, nel laboratorio di Bosia, in Alta Langa, dove fabbrica i suoi coltelli

Quando sono venuto a trovare Gioele la prima volta, era febbraio; ero incuriosito dalla capacità dei ragazzi della sua generazione di riscoprire la terra e di restituire nuova vita alle tradizioni. Mi ha mostrato il suo laboratorio, ha cominciato a parlare di forme, geometrie, bilanciamento, simmetrie, di come forgiano l’acciaio i giapponesi, dei 67 strati di quella lama che non venderà mai, delle resine e dei legni dei manici. «Io uso quelli che recupero nei boschi, voglio tenere sempre il rapporto con il territorio, uso il ginepro, il bosso, pezzi di radici di castagno. Amo trasformare un pezzo di tronco in un bel pezzo di legno».

Il costo dei suoi coltelli parte da 100 euro, un prezzo che mi sembra importante, fuori mercato; poi mi spiega che per fare un coltello semplice impiega almeno cinque ore, per quelli complessi il doppio del tempo, che l’acciaio già forgiato costa 5 euro al centimetro e capisco che io ragiono sui prodotti industriali. Lui invece ha l’ambizione di consegnarti qualcosa che userai per tutta la vita, come quei coltelli dei pastori che conosce a memoria, il gobbo abruzzese, il bergamasco o il “vernantin” piemontese con cui si lavorava, si tagliava il formaggio e ci si faceva anche la barba.

Alcuni dei coltelli artigianali prodotti da Gioele

Poi, mentre mangiamo la torta di nocciole, specialità di questa zona, si mette a parlarmi della pecora frabosana, una razza in via d’estinzione delle Alpi marittime che lui si è messo ad allevare, una pecora da latte con le corna «abbandonata perché poco produttiva, ma di grande qualità». Comincia a fare larghi gesti con le braccia e a descrivere il piccolo caseificio che sta costruendo e i tre formaggi a latte crudo che sta sperimentando e vuole mettere in produzione l’anno prossimo: «Avevo pensato di vivere con i coltelli ma il richiamo della natura è troppo forte, così divido il mio tempo tra il laboratorio e gli animali. Se c’è una giornata storta salgo in montagna e mi passa tutto».

Gioele è pieno di convinzioni radicali: nemico della stalla, «covo naturale di malattie», ha il fascino dei pastori transumanti e tiene il gregge al pascolo tutto l’anno, che ci sia il sole o la neve, anche «se questo significa non avere mai un giorno di riposo o un fine settimana libero. Mi dicono che sono pazzo ma pecore e capre sono animali che devono stare liberi a brucare tutto l’anno».

Milo, Regina e Pou, i tre cani da guardia del gregge di Gioele che servono soprattutto ad allontanare i lupi

La sua unica preoccupazione, mi ripete oggi, è il lupo, animale che lo affascina profondamente per l’intelligenza e il controllo del territorio: «Pochi giorni fa ha colpito un mio vicino e si è mangiato otto pecore, succede quando non ci sono cani da guardia o ce n’è uno solo. E un cane non ce la può fare a difendere un gregge. Io ne ho presi tre belli grossi: Milo ha otto anni, è un maremmano, lui è il capo. Dorme tutto il giorno sotto gli alberi ma quando viene buio e io torno a casa lui è ben sveglio e si mette di guardia insieme a Regina e Pou, due cani da montagna dei Pirenei che hanno solo un anno e mezzo e seguono ogni cosa che fa. Di fronte a tre cani così, il lupo, che è diffidente, non attacca perché non vuole correre il rischio di farsi male».

Quassù il virus non è mai arrivato, ma adesso Gioele un po’ lo teme: «Finché ero l’unico a uscire per stare tra i prati con le pecore, non ci pensavo, ma ora che sono usciti tutti e mi chiamano per venirmi a trovare ho cominciato a preoccuparmi. Così rispondo sempre: aspettiamo ancora, non bisogna avere fretta!».

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