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17 Marzo 2020

Nel paese dove le campane non suonano più

A Nembro, nelle valli bergamasche, il coronavirus miete continuamente vittime. Don Matteo, il curato che si è caricato sulle spalle la parrocchia, racconta il dolore collettivo. E la pietà per chi non ha nemmeno la consolazione dei funerali
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Il 7 marzo, a Nembro, smettono di suonare le campane a morto: «Abbiamo deciso di non farlo più da quel sabato, il giorno dei quattro funerali; avrebbe significato riempire l’aria con quei lugubri rintocchi per tutta la giornata e sarebbe stata un’angoscia insopportabile per la popolazione. Abbiamo pensato fosse meglio lasciar perdere». Comune di Nembro, 11.500 abitanti, molte chiese, ma una sola parrocchia con cinque sacerdoti. Quattro si sono ammalati, uno soltanto è rimasto in piedi, il più giovane: don Matteo, 40 anni, originario di San Pellegrino Terme.

Nembro vista dal drone di don Matteo Cella

Nembro – paesone a Est di Bergamo che fa da porta alla Valle Seriana e dove si costruisce lo scafo di Luna Rossa – rischia di passare dalla cronaca alla storia di questa epidemia come il Comune con la più alta percentuale di vittime. Era già successo con la peste del 1630 che si portò via tre quarti dei 2.700 abitanti, lasciando 744 superstiti.

L’anno scorso a Nembro sono morte 120 persone, dieci al mese; ora 70 morti in soli 12 giorni. Ho cercato il parroco di questa comunità, ma ho trovato il suo aiutante, il curato, don Matteo Cella, quello che di solito si occupa dei ragazzi. È lui a raccontarmi una realtà terribile: «Dall’inizio dell’epidemia, secondo i calcoli della segreteria parrocchiale, abbiamo celebrato 39 funerali in chiesa, 26 esequie al cimitero e abbiamo 26 defunti in attesa di sepoltura. Siamo a quota 91 e non si tiene conto di eventuali altri morti degli ultimi giorni, di cui non abbiamo avuto ancora comunicazione, e nemmeno dei non credenti».

Il paese è immobile, una visione surreale: nessuno cammina per strada, i negozi sono tutti chiusi, gli alimentari e la farmacia fanno solo consegne a domicilio. Fino a 15 giorni fa, la piazza del Comune era piena zeppa di ragazzi, ora non c’è più nessuno, ogni cosa è rimasta ferma, come congelata, nel punto in cui si trovava quel sabato d’inizio marzo, quando è arrivata la decisione del governo di chiudere tutta la Lombardia. Ma qui la storia sembra partire da molto più lontano; sembra sempre più evidente che il “paziente uno” di Codogno, nel Lodigiano, sia stato solo il primo a cui è stato fatto il tampone e solo il primo a essere dichiarato ufficialmente contagiato dal coronavirus, ma che l’epidemia si stesse diffondendo da tempo.

La piazza del Comune di Nembro, vista dal drone di don Matteo e deserta in questi giorni

Don Matteo, che non è medico e non vuole fare il mestiere degli altri, si limita a mettere in fila gli avvenimenti che hanno sconvolto la sua comunità: «Secondo noi, questo virus gira dall’inizio dell’anno o addirittura da Natale, senza essere stato riconosciuto. La casa di riposo di Nembro, per prima, ha avuto un picco di decessi anomalo: a gennaio sono morte di polmonite 20 persone; l’ultimo, pochi giorni fa, è stato il presidente della fondazione, Giuseppe Pezzotta, detto Bepo. In tutto il 2019, lì, i morti erano stati sette. E così i funerali hanno cominciato ad aumentare di settimana in settimana. E sempre tutti a parlare di queste polmoniti così aggressive. Prima di Carnevale, metà paese era a letto con la febbre; ricordo che, mentre discutevamo se fare lo stesso la festa e la sfilata con i bambini, avevamo dovuto sospendere lo “spazio compiti” perché la maggior parte dei volontari che seguono i ragazzi era malata. Ma allora non si parlava di coronavirus in Italia. Chissà quanti di noi, invece, erano già malati e poi sono guariti».

«Piano piano è stato sospeso tutto – continua don Matteo – innanzitutto, non si sono più potute celebrare le messe, anche se abbiamo mantenuto, finché possibile, l’incontro con le persone e con le famiglie dei malati, perché non si può negare loro il conforto. Abbiamo cercato di farlo con molta prudenza, ma oggi io sono l’unico prete rimasto in salute, gli altri hanno tutti la febbre. Don Giuseppe è in ospedale e don Antonio, il parroco, era malato, ma per fortuna ora sta meglio. Poi abbiamo cominciato a celebrare i primi funerali dei morti di coronavirus solo con i parenti stretti. Nella settimana del 2 marzo abbiamo fatto 14 funerali, di solito sono al massimo due».

L’ultimo funerale prima dello stop del governo è stato quello di Massimo, 52 anni. Lavorava in una tipografia, si occupava di grafica e stampa, ed era molto appassionato di pallavolo, lo sport delle sue tre figlie, che hanno 25, 15 e 12 anni. A officiare la cerimonia funebre è stato proprio don Matteo, nel pomeriggio di sabato 7 marzo: «C’erano solo la moglie e le figlie, pochi amici aspettavano il passaggio del feretro sulla piazza, a debita distanza. A Massimo non è mai stato fatto il tampone, è morto in casa nei giorni in cui il panico e l’emergenza erano alle stelle. I nostri medici di base sono stati i primi ad ammalarsi o a finire in quarantena, difficile ottenere risposte, tutto era andato in tilt. Massimo ha avuto la febbre per una settimana, sempre più alta, poi sono cominciati i problemi respiratori. La famiglia ha chiamato i soccorsi, ma quando l’ambulanza è arrivata non c’era più niente da fare».

Don Matteo Cella

Da allora non solo non suonano più le campane a morto, ma anche le ambulanze, quando possibile, non accendono la sirena per diminuire l’angoscia di questo continuo avanti e indietro. Ora che i funerali non si possono più fare, don Matteo può soltanto accompagnare al cimitero i defunti: «Le famiglie ci avvisano e noi andiamo a benedire le bare o le urne con le ceneri prima che l’operaio dei servizi cimiteriali proceda alla sepoltura. È una cosa tristissima, gelida, faccio del mio meglio per restituire un minimo di umanità. Queste persone sono morte in ospedale, in una situazione eccezionale e in completa solitudine; molti parenti hanno visto partire l’ambulanza con il loro caro e non hanno saputo più nulla fino alla comunicazione del decesso e al ritiro degli effetti personali. E non sto parlando di un caso isolato». Il parroco, don Antonio, da quando sta meglio telefona a tutte le famiglie che hanno avuto un lutto, per confortarle.

Quando hanno chiuso i negozi, il Comune ha chiesto una mano alla parrocchia per far sapere a tutti che si poteva avere la spesa a domicilio; ogni commerciante si è organizzato, mentre don Matteo ha raggruppato quaranta ragazzi tra i 15 e i 17 anni che sono andati di casa in casa a mettere un volantino in tutte le cassette della posta. «Un’altra cosa bella – racconta – sono i volontari che portano le medicine ai malati, agli anziani e a chi è in quarantena. Si è riscoperto un forte senso di comunità e il territorio ha mostrato una tenuta umana commovente».

Il paese cerca di tenersi informato, la gente vuole sapere chi è mancato o chi è finito in ospedale, ma capita che in questo tam-tam fatto su WhatsApp si producano anche bufale colossali, spesso dovute a omonimie: «Ieri mattina davano per morto il vecchio parroco, che è stato con noi fino allo scorso anno e che è ricoverato in ospedale. In molti mi hanno chiamato per esprimere vicinanza, ma tra una telefonata e l’altra ha chiamato anche lui per dirmi che stava meglio e che finalmente riusciva a parlare. Non ho avuto il coraggio di dirgli che in paese lo stavano già piangendo…».

Domenica scorsa, invece, è arrivato un colpo durissimo per tutti: Ivana Valoti, l’ostetrica, 58 anni, è morta in un letto del suo ospedale di Alzano Lombardo: «Ci era giunta notizia che stesse meglio, sapevamo che aveva accudito fino all’ultimo la madre, morta due settimane fa di coronavirus, ma speravamo che lei ce l’avrebbe fatta. Poi, di colpo, una crisi respiratoria l’ha portata via. Sono rimasti tutti sconvolti, perché l’Ivana aveva fatto venire al mondo i bambini e i ragazzi del paese, lei rappresentava la vita che nasce e la sua morte prematura è stato lo choc più forte».

In questo vuoto e in questo silenzio, don Matteo si affida alla tecnologia, celebra la messa nella chiesa vuota e poi la mette su YouTube; i gruppi parrocchiali si ritrovano sulle chat o in video su Zoom. Ogni mattina, lui produce un podcast con il commento al Vangelo del giorno e i parrocchiani lo possono trovare su varie piattaforme, da Spotify ad Apple, da Facebook a Twitter, per poi condividerlo: lo scaricano 500 persone al giorno. «Adesso devo andare a finire di montare quello di domani, è il Vangelo di Matteo che parla di debiti, di numeri e di perdono», dice il curato. Ieri mattina sono andato ad ascoltare il suo podcast e una frase mi è sembrata perfetta: «Spesso la fredda precisione dei numeri li trasforma in gabbie crudeli, invece noi dobbiamo perdonare fino a perdere il conto».

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