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26 Marzo 2020

L’ultimo volo per Roma

Il fotografo Emanuele Satolli è rientrato dalla Turchia ed è in quarantena nella Capitale. Per la prima volta, ha sperimentato l’incertezza. Quella forma di dolore che conosce bene chi scappa dalla guerra
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«Una sera di due settimane fa, seduto sul divano nella mia casa di Istanbul, dovevo prendere una decisione: restare in Turchia, con il rischio di rimanere bloccato lì chissà fino a quando, o tornare in Italia, non sapendo però quando mi sarei potuto risedere su quel divano. Il non riuscire a immaginare cosa sarebbe successo anche solo nelle 24 ore seguenti (il virus si sarebbe diffuso anche a Istanbul, dove gli autobus erano ancora pieni e le strade affollate? Fino a quando sarei riuscito a viaggiare per raggiungere le persone per me più importanti?) e l’incertezza mi lasciavano senza una risposta. Quell’impossibilità di decidere mi ha portato a riflettere su chi, suo malgrado, è costretto a vivere le conseguenze di una guerra. Ho sempre pensato a loro in termini di paura, di dolore fisico. Ferite e morte. Non ho mai approfondito l’altro aspetto terrificante che subiscono: l’incertezza. Quando finirà? Dovremmo andarcene? Potremo mai tornare? È dolore anche questo, ma fino a quella sera – non avendolo mai vissuto sulla mia pelle – per me quasi non esisteva. In fondo, “il dolore degli altri è dolore a metà”, diceva De André. Il giorno dopo ho preso un volo per Monaco – non sapendo, in quel momento, che sarebbe stato l’ultimo prima che la Turchia chiudesse i transiti con l’Europa – e da lì un altro per Roma. Ora sono qui, in autoisolamento con Giulia, e le finestre sono diventate i nostri varchi sul mondo di fuori. Ci prendiamo i suoni, gli odori e la luce del mattino per leggere “Uomini senza donne” di Murakami. Aspettando di poter viaggiare di nuovo».

Chi è Satolli, di Mario Calabresi

Emanuele Satolli ha scelto di vivere a Istanbul: una finestra che affaccia sul Medio Oriente e che gli permette di non perdere il contatto con i territori e le storie che ha deciso di raccontare in questi anni. In tutti i suoi racconti, le persone sono al centro: i migranti e i loro oggetti al confine tra Guatemala e Messico; la dipendenza da krokodil (una sostanza oppiacea lavorata chimicamente, in grado di distruggere i corpi) in Russia; le proteste a Gaza per la decisone degli Stati Uniti di spostare l’ambasciata da Tel Aviv a Gerusalemme.

La sua costante collaborazione con “Time” gli ha permesso di vivere in prima linea alcune tra le più importanti vicende della guerra in Iraq. Nel 2017 ha raccontato la liberazione di Mosul, entrando nella città vecchia fianco a fianco con l’esercito iracheno. Casa dopo casa, ha documentato lo straziante panorama di una città distrutta e dei suoi abitanti. Abbiamo pubblicato le foto di Emanuele su “Repubblica” diverse volte. Ricordo quando l’abbiamo intercettato mentre era a Baghdad: cercavamo una storia positiva, qualcosa che raccontasse la fine della guerra. Abbiamo ricevuto delle fotografie molto particolari di una festa: ragazze e ragazzi ballavano al ritmo di techno chiusi in un hotel, erano i figli e i fratelli sopravvissuti ai combattimenti in cerca di rinascita e libertà.

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