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30 Giugno 2022

L’ultimo comandante

C’è un uomo che da 66 anni ricorda la notte più lunga della sua vita, quando insieme al suo Comandante rimase fino all’ultimo istante sul ponte di un transatlantico che affondava. Quella nave era l’Andrea Doria ed Eugenio Giannini, oggi ultranovantenne, rievoca la sua storia in un podcast emozionante
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«Ho deciso di interrompere la mia carriera di marinaio quando, tornando a casa dopo un lungo periodo per mare, mia figlia Luisa, vedendomi entrare in cortile, corse da mia moglie urlando: “Mamma c’è uno in giardino”. Ecco, in quel momento ho capito che dovevo smettere». E così, nel 1963 Eugenio Giannini è sbarcato per l’ultima volta da un transatlantico ma la sua vita è rimasta legata al mare e alla notte più terribile della sua vita, quella dell’affondamento dell’Andrea Doria, il 25 luglio 1956, quando era sul ponte di comando, come terzo ufficiale della più grande e prestigiosa nave della storia italiana.

L’Andrea Doria mentre si inabissa al largo dell’Isola di Nantucket

Ci aspetta nel suo appartamento di Padova, dove vive con la moglie. Una coppia di splendidi novantenni, affettuosi e gentili, visitati frequentemente dalla figlia Luisa. Eugenio Giannini si è diplomato aspirante Capitano di lungo corso nel lontano 1948, tempi durissimi – l’anno delle prime elezioni politiche della storia repubblicana (e della prima vittoria democristiana), dell’attentato a Togliatti, di scioperi e tumulti – in cui la Marina Mercantile italiana era ancora malconcia, quasi inesistente dopo la devastazione della Seconda Guerra Mondiale. «Trovare un imbarco, per me, giovane diplomato senza tradizioni famigliari marinaresche, non era facile, così ho accettato la prima chiamata, come mozzo, sul Salento, uno scava-fango della Grande Guerra di provenienza austriaca, che faceva rotta tra Genova e Famagosta, sull’isola di Cipro. Ci ho vomitato sopra per tutta la prima notte di navigazione, poi basta, da allora non ho più sofferto il mal di mare». La gavetta, Giannini, se l’è fatta tutta. Dopo il Salento è stata la volta delle petroliere di Ernesto Fassio, un nome che oggi ai più non dice molto, ma che, insieme ad Angelo Costa e Achille Lauro, componeva la triade dei grandi armatori italiani del dopoguerra. «Scendere nel locale pompe di quelle navi, a tentoni, senza vedere né scalini né il fondo, era un’impresa ardua. Una temperatura infernale e un vapore soffocante. Tutto questo in Golfo Persico, senza aria condizionata e spesso con i frigoriferi guasti!». 

La prua dell’Andrea Doria

Su quelle petroliere ottenne per la prima volta il grado di terzo ufficiale, lo stesso grado con cui, dopo diversi anni e numerosi altri imbarchi su navi differenti, il 10 aprile 1956 fu chiamato, con telegramma, sull’Andrea Doria. «Quando arrivai al pontile e la vidi, in tutta la sua maestosa bellezza, mi venne il groppo in gola. Era il coronamento dei miei sogni, mi stavo per imbarcare sull’ammiraglia della Marina Mercantile italiana». 
Non una nave qualsiasi. L’Andrea Doria era un transatlantico di una bellezza straordinaria, un gioiello di design, dalle linee incredibilmente armoniose: «Al confronto – sbotta Giannini – le colossali navi da crociera di adesso a me sembrano dei ferri da stiro!». Una nave che doveva simboleggiare la rinascita italiana dopo la catastrofe del conflitto mondiale «perché il mondo doveva sapere che in noi era rimasto un po’ di orgoglio che ci spronava a risorgere».

Destinata alla rotta più prestigiosa, quella che collegava Genova a New York, soprannominata la “Rotta del sole”, l’Andrea Doria fu davvero un eccezionale biglietto da visita per l’Italia e per la sua industria manifatturiera, un “lembo di patria semovente”, come la descrivevano firme prestigiose sui quotidiani, che trasportava personalità politiche e del mondo dello spettacolo in prima classe, ma anche emigranti in quella terza classe che era stata rinominata “classe cabina” e che, come ricorda Giannini, «non aveva proprio nulla della terza classe di una volta: la maggior parte delle persone, quando ci avvicinavamo al porto di New York, non voleva scendere. Sapevano che una vita così agiata non l’avrebbero più vissuta».  
Solo tre mesi dopo il suo primo imbarco, Eugenio Giannini assisterà alla fine dell’Andrea Doria. La notte del 25 luglio 1956, al largo di Nantucket, l’isola da cui Melville faceva partire il Pequod alla caccia di Moby Dick, la motonave svedese Stockholm speronò in modo irreparabile il transatlantico italiano, condannandolo a una lenta agonia prima dell’affondamento, avvenuto alle 10:10 del 26 luglio, con ancora il motore di emergenza acceso. «Il rumore, quando l’acqua la ricoprì completamente, sembrò quello di un rantolo. E forse lo era».

L’Andrea Doria durante il naufragio

Giannini rimase fino all’ultimo sul ponte di comando assieme al comandante Piero Calamai e ricorda tutte le fasi di quella notte: l’angoscia per la disperata consapevolezza di quello che stava per accadere a molte persone che stavano serenamente dormendo nelle loro cabine o festeggiando nei grandi saloni della nave; il sangue freddo del comandante Calamai, che riuscì a gestire la peggiore delle situazioni di emergenza – la nave si era subito sbandata oltre i 20 gradi, impedendo l’utilizzo di metà delle scialuppe di salvataggio –, coordinando le attività di soccorso e di evacuazione del transatlantico; la sua idea di utilizzare le reti di copertura delle piscine come improvvisate scale di emergenza e mille altre situazioni di disperazione o di coraggio. Alla fine di quella drammatica notte, tutti i passeggeri rimasti in vita dopo la collisione, e tutto l’equipaggio, furono salvati. I morti furono 46.

La sua memoria è lucidissima, pari alla sua rabbia, per come andarono le cose nei giorni e nei mesi successivi all’affondamento: «Perché noi avevamo ragione, ma l’Italia non si fece valere e alla fine ci restò attaccata una colpa che non avevamo». Giannini non ha mai dimenticato le ingiurie e le menzogne che furono rovesciate, strumentalmente, in ambienti svedesi e americani, contro l’equipaggio e gli ufficiali italiani: «Eravamo incolpevoli nella collisione, avevamo salvato tutti quelli rimasti in vita dopo lo speronamento, portando a termine il più grande salvataggio della storia della marineria di tutti i tempi, ma ci lasciarono insultare».

Il comandante Eugenio Giannini

La campagna denigratoria, organizzata principalmente dagli armatori svedesi per tentare di diluire le responsabilità dei suoi ufficiali – che navigavano fuori rotta e avevano sbagliato la taratura del radar –, ma ben vista anche dagli armatori americani – le cui navi spesso partivano semivuote per l’Europa poiché i passeggeri preferivano i nuovi transatlantici italiani (all’Andrea Doria si era aggiunta la gemella Cristoforo Colombo) – non fu minimamente contrastata dalla compagnia armatrice italiana, la Società di Navigazione Italia, appartenente al gruppo IRI. 
Probabilmente per l’elefantiaca e burocratica struttura di questa impresa statale, ma forse anche perché nei cantieri di Sestri, sempre di proprietà IRI, si stava completando la costruzione della nuova ammiraglia svedese, una commessa molto ingente che si sarebbe rischiato di perdere.

Alla fine, insomma, in Italia sembrò prevalere l’idea che fosse meglio “lasciare cadere” la cosa. Si preferì giungere a un accordo extragiudiziale tra armatori svedesi e italiani che non stabilì con chiarezza le cause e le responsabilità della collisione.

Un accordo che lasciò l’amaro in bocca a Eugenio Giannini e a tutti gli ufficiali e gli uomini dell’equipaggio dell’Andrea Doria. Da allora, fino a oggi, il comandante Giannini non ha mai perso occasione per ricordare la verità sull’Andrea Doria e ricordare il valore del suo comandante di allora Piero Calamai, scomparso nel 1972, senza avere mai più ricevuto un incarico: «Una cosa vergognosa, lui era il migliore comandante che si potesse desiderare, fece tutto il possibile e non aveva colpe. Non meritava di essere trattato così».

La Ballata dell’Andrea Doria”, il podcast di Chora Media per Archivio Luce raccontato da Luca Bizzarri

La voce del comandante Giannini, ancora appassionata e vivace, è una delle protagoniste della serie podcast realizzata da Chora Media per Archivio Luce e narrata da Luca Bizzarri, in cui si ricostruisce la storia di quell’eccellenza italiana e si racconta, in modo approfondito, ogni aspetto di quella tragica notte.
Un cinegiornale dell’Archivio Luce, commentando la fine dell’Andrea Doria, affermava: “l’oceano è cattivo, quando ha sete beve tutto”. Forse la cattiva memoria è ancora peggiore. Grazie al comandante Eugenio Giannini, la verità sull’Andrea Doria è stata ristabilita.

*Davide Savelli, autore e regista di documentari, programmi e serie, ha scritto la serie podcast “La Ballata dell’Andrea Doria”. Il suo ultimo libro è: “Venezia 1902, i delitti della Fenice”

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