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5 Maggio 2022

Le parole per dirselo

C’è una battaglia del corpo che conosco molto bene: quella del Parkinson. So che spesso si rifiuta la diagnosi, ma so anche che il coraggio di accettarla cambia la vita. Un progetto fotografico (ora al Maxxi) e un libro che parla raccontano 43 storie di voglia di vivere
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Quando la sua mano cominciò a tremare leggermente pensò fosse colpa di quella gara di nuoto all’Isola d’Elba quando, per battere i figli, aveva dato il massimo e si era fatto venire un gran mal di schiena. Provò qualunque tipo di massaggio e terapia ma senza risultato. Passavano i mesi, era ormai inverno, e quel fastidio al braccio non passava, anzi sembrava diventare più persistente. Il medico della mutua fece varie ipotesi e disse anche che conveniva fare, tra le altre cose, una visita neurologica. Spiegò che alcune forme di Parkinson si presentavano con quei sintomi, ma che era solo un’ipotesi da vagliare. Tonino rimosse radicalmente quell’ipotesi e ripeteva sempre la stessa frase “È successo all’Elba”. E quando, dopo una seduta di shiatsu, gli dissero che magari quei problemi alla mano erano dovuti allo schiacciamento di una vertebra, accolse la possibilità come l’unica vera diagnosi, da opporre con forza a quell’idea della visita neurologica. Ricordo che camminavamo per Roma, dove era venuto a trovarmi e a fare una piccola vacanza, e lui era felice e sollevato di essersi sentito dire che poteva essere un problema di vertebre: festeggiammo con un pezzo di pizza rossa dal panettiere di Campo de’ Fiori. Di vertebre schiacciate però non se ne trovarono, la sua schiena stava benissimo, così dopo infinite resistenze entrò nello studio del neurologo e quello disse, utilizzando vari condizionali, che poteva trattarsi di una malattia parkinsoniana. Tonino aveva 59 anni, era stato sempre benissimo, era da poco andato in pensione come maestro elementare e il suo orizzonte voleva essere quello del mare e delle tele su cui dipingeva. Si attaccò ai condizionali usati dal neurologo e per un tempo ancora lunghissimo rifiutò quella diagnosi e non volle accettare quella malattia che sarebbe stata la sua compagna di vita per quattordici anni.

Tonino Milite, poeta e pittore

A febbraio ho ricevuto una mail da Giangi Milesi, presidente della Confederazione Parkinson Italia, che raccoglie tutte le associazioni che si occupano dei malati e della malattia. Iniziava così: «Ho esitato a scriverle. Mi chiedevo: “Con una guerra sull’uscio, come può interessarsi alla nostra piccola guerra quotidiana contro il Parkinson?”». Poi però mi raccontava tutto, immaginando che non sapessi nulla: «La malattia di Parkinson è tanto diffusa, quanto poco e mal conosciuta. Non è contagiosa, come lascia intendere la definizione di “morbo”. Non va nascosta, agli altri e a sé stessi. Conoscerla e riconoscerla per tempo, con una diagnosi precoce, aiuta a combatterla caso per caso, con una cura personalizzata. Dal Parkinson non si guarisce, ma si può tutelare il proprio benessere per una lunga vita di qualità. Le persone con Parkinson subiscono lo stigma e sono spinte all’isolamento. Il loro stesso numero è ampiamente sottostimato. Il mondo Parkinson è frammentato e inconsistente, perciò resta inascoltato».

Leggendo le sue parole ho ritrovato tante cose che mi sono familiari da tempo, una soprattutto che riguardava Tonino, l’uomo che mi ha cresciuto e mi ha fatto da padre, e che ho capito essere una costante: la negazione della malattia. Ma nel lungo racconto che mi avrebbe poi fatto Milesi di fronte a un caffè, ho ritrovato la chiave di tutto: «Il modo peggiore per affrontare la malattia è proprio negarla e nasconderla. Per questo aprire le porte, raccontare, continuare a vivere in mezzo agli altri è fondamentale. Non avere vergogna di ciò che accade, ma mostrare la fatica e insieme la lotta, la creatività, l’amore per la vita e l’impegno».
Quando Tonino smise di combattere contro l’idea del Parkinson e accettò la diagnosi, le sue energie si spostarono da un’altra parte e la sua creatività esplose, cominciò a scrivere poesie, sempre più belle, pubblicò tre raccolte e si inventò mille modi per non farsi fermare dalla malattia.

L’audio-libro fotografico “Non chiamatemi morbo” edito da Contrasto

È lo stesso lavoro che fa ogni giorno Giangi Milesi, con tanto volontariato e pochissime risorse si è inventato una “mostra fotografica parlante” e itinerante, che ha già fatto 13 tappe ed è servita alle piccole associazioni che operano a livello locale come strumento per prendere l’iniziativa e uscire allo scoperto. Ora questa mostra arriva al museo MAXXI di Roma (dal 6 al 22 maggio) e si è trasformata in un libro dal titolo “Non chiamatemi morbo”, che contiene quarantatré storie di resilienza al Parkinson, di esperienze di vita quotidiana o di progetti straordinari, raccontare dal fotografo-narratore Giovanni Diffidenti.
I suoi scatti danno valore e visibilità alle reti familiari e sociali, all’affetto e all’attenzione che circondano i malati, e possono aiutare ad uscire dall’angosciosa solitudine in cui molti sprofondano dopo la diagnosi, sentendosi soli ed emarginati.
I ritratti di queste 43 persone ci parlano prima di tutto dell’inguaribile voglia di vivere, mostrano le storie di chi impara a convivere con la malattia e mette in campo doti inattese e spesso sconosciute di creatività e di resistenza per trovare nuovi equilibri.

Giulio D’Adda (© Giovanni Diffidenti)
Alessandro Culotta (© Giovanni Diffidenti)

Il libro fotografico non ha testi, ma ogni ritratto rimanda a un audio che racconta una storia. Le voci sono quelle di Claudio Bisio e Lella Costa, che sono Mister e Misses Parkinson, impersonificano la malattia e con la loro capacità che è comica, tagliente e straordinariamente umana, ci mostrano la forza, l’energia, l’amore con cui le donne e gli uomini colpiti da questa patologia creano la loro personale terapia per restare attaccati alla vita, per non arrendersi alle difficoltà di una malattia degenerativa.
Lella Costa e Claudio Bisio sono la malattia che non riesce a farsi una ragione degli ostacoli che trova, che si arrabbia di fronte alla resistenza, alle capacità umane di inventare soluzioni e trucchi per non farsi mettere in un angolo dal Parkinson.
Storie di chi si sforza di evitare l’isolamento e la chiusura e ogni giorno deve fare i conti con un disagio che progredisce, con la rabbia di esserne stati colpiti, con il dolore, ma anche con la capacità di farci i conti, di costruire un nuovo equilibrio personale e relazionale.

Lella Costa e Claudio Bisio sono le voci del libro “Non chiamatemi morbo”

C’è Alessandro che ha scoperto di avere il Parkinson appena quarantenne, che ha scelto di scommettere sul sorriso e allora fa il clown per la Croce Rossa negli ospedali e dice che la malattia ha cambiato le sue priorità, ha dato un nuovo valore ai gesti di ogni giorno: ora ha imparato a dare importanza a cose che prima considerava scontate.
C’è chi ha scelto la poesia per esprimersi, chi costruisce modellini di barche, chi recita, chi fa yoga e meditazione, chi lavora il legno, chi ha imparato a ballare il tango o a disegnare con un sacco di colori.
Guardo queste immagini, ascolto queste storie e capisco come siano un incoraggiamento ad essere all’altezza della sfida, a vivere pienamente ogni istante della propria esistenza. Come faceva Tonino, che non si è arreso un solo giorno.

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