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28 Ottobre 2021

La libertà di guardare il soffitto

Padre Pier Luigi Maccalli è stato rapito e tenuto prigioniero nel deserto del Sahara per due anni. Ha resistito alla tristezza e al dolore grazie a tre oggetti da cui non si separa più. E al sogno di riavere prima o poi un tetto sopra la testa. Questa è la sua storia straordinaria.
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«Ho visto per 25 volte la luna piena illuminare il deserto e ogni volta ho sperato che fosse l’ultima. Vedevo passare gli aerei di linea, osservavo le loro scie, cercavo di immaginare le vite delle persone a bordo, e mi sforzavo di credere che un giorno sarei tornato anch’io a guardare il deserto da un oblò. Ma il mio sogno più grande, un desiderio ancor più forte di dormire su un materasso, era di aprire gli occhi e vedere un soffitto. “Quando vedrò un soffitto sulla mia testa – mi ripetevo – allora sarò salvo”».

Padre Pier Luigi Maccalli

Pier Luigi Maccalli, sacerdote italiano della Società delle Missioni Africane, è tornato a vedere il soffitto a ottobre dello scorso anno, dopo aver passato 25 mesi prigioniero di un gruppo di jihadisti che fanno parte della galassia di Al Qaeda nel Maghreb. La sua storia, il diario del suo rapimento e di due anni terribili incatenato tra le dune del deserto, sono diventati un libro che abbiamo presentato insieme e questo mi ha dato la possibilità di ascoltare la sua voce e i suoi racconti. Padre Maccalli ha sessant’anni, viene da Madignano, un paese in provincia di Cremona, ha la barba bianca, una faccia aperta e solare e un modo di parlare semplice e diretto. 

L’esperienza che ha vissuto ha lasciato un segno profondo dentro di lui, una ferita insanabile che non riesce, e probabilmente non riuscirà mai, a dimenticare. «Sono stato rapito il 17 settembre del 2018 e per i primi 22 giorni mi hanno tenuto incatenato giorno e notte a un albero. La catena, lunga poco più di un metro mi stringeva la caviglia, non potevo muovermi. È stata l’umiliazione più grande: trattato come si trattavano una volta i cani in campagna». 
Porta sempre con sé tre oggetti che gli ricordano che cosa ha passato ma anche come ha resistito. Il primo lo ha al polso, è un braccialetto di stoffa con dei nodi, è il rosario che si era costruito e che recitava silenziosamente ogni mattina, quando gli toglievano i ceppi notturni dai piedi e poteva camminare in circolo per un’ora. Il tessuto ormai è scuro, lo aveva strappato dal turbante che teneva in testa per proteggersi dal sole, nei mesi si è impregnato di sabbia e sudore.

Il braccialetto rosario realizzato da padre Maccali con la stoffa di un turbante usato per proteggersi la testa dal sole

Poi dalla tasca tira fuori una piccola bustina da cui estrae due pezzi di legno intagliati, ci ha lavorato con pazienza per settimane, tenendoli sempre separati. Ora li mette insieme, come faceva soltanto la notte quando tutti dormivano, e forma una croce in legno. L’ha costruita pensando alla croce incisa sul muro della cella da padre Massimiliano Kolbe ad Auschwitz. L’ha fatta per non sentirsi solo, per ricordarsi quanta sofferenza ed ingiustizia c’è nel mondo. «Per molto tempo mi sono sentito abbandonato, avvolto da un deserto fuori e dentro di me, non sentivo la voce di Dio. Poi l’ho trovato nel silenzio».

«Ho vissuto per 25 mesi in una prigione a cielo aperto, in mezzo al deserto di sabbia del Sahara, di giorno un caldo infernale, il vento bollente e la luce bruciavano la pelle e gli occhi. La notte dormivo per terra, solo con una stuoia, l’acqua sapeva di benzina. La sete era tantissima, ma versavo sempre un po’ della mia acqua in una scatola di latta per gli uccelli che, sfiniti dal caldo, venivano a bere. Li osservavo con il loro ciuffettino e mi sentivo in pace. Mi hanno fatto girare nel deserto di dune, tra Mauritania, Mali e Algeria. La mattina era la parte più facile della giornata, all’alba mi toglievano le catene, passeggiavo in circolo e recitavo il rosario in silenzio, poi preparavo del tè sulle braci e alle 11 cucinavo il riso per il pranzo. Poi la giornata finiva perché il sole era troppo forte e il caldo soffocante e si doveva stare immobili all’ombra, con la testa e gli occhi coperti. Al tramonto camminavo ancora un’ora in cerchio, mangiavo il riso rimasto e poi mi rimettevano le catene. La mia unica consolazione erano le stelle, questa cupola di stelle che scendeva fino all’orizzonte. Di fronte a quella sensazione di infinito anche la mia condizione diventava relativa, mi sentivo un puntino nell’universo e le stelle mi davano speranza».

La croce in legno costruita da padre Maccalli pensando a quella incisa sul muro della cella da padre Massimiliano Kolbe ad Auschwitz

Il terzo oggetto che tiene in tasca è un anello spezzato della sua catena, era riuscito a romperlo con un lavoro infinito, lo usava come cacciavite per allentare un pochino i bulloni che gli stringevano le caviglie. Questo anello, insieme con il rosario di stoffa e la croce sono i tre simboli del suo calvario, della sua resistenza e della sua fede.
Quando gli chiedo se avesse paura, mi risponde: «Tristezza. Ho passato due anni di tristezza profonda, mi vedevo ridotto ad uno stato che non avrei mai immaginato, io che rido e scherzo sempre, che cerco di portare gioia nelle cose, che faccio studiare i ragazzi e con loro scavo pozzi. 

Anche i rapitori erano ragazzi, avevano al massimo vent’anni, erano la faccia di un’Africa molto lontana da quella colorata in cui ho lavorato a lungo, un’Africa oscura, dove si sprecano vite ad abbracciare un kalashnikov. Io ero ostaggio, ma li osservavo e pensavo che i veri ostaggi erano loro, non sapevano leggere e nemmeno scrivere, passavano le giornate con lo smartphone tra le mani ad ascoltare inni alla jihad e a guardare video di propaganda. Una sera uno di questi ragazzi me ne mostra uno in cui si vedono altri giovani che sparano a ripetizione con le mitragliette. Allora gli chiedo se ascolta mai musica. Si blocca, mi guarda e poi si mette a cercare nel telefono e alla fine fa partire un video con raffiche di kalashnikov: “Questa è musica”. Poi aggiunge: “Io aspetto soltanto il giorno in cui potrò farmi saltare in aria”».

L’anello spezzato della catena a cui era legato padre Maccalli

Dopo un anno di prigionia padre Maccalli ottiene di poter ascoltare la radiolina di un rapitore che va e viene dal campo, la prima volta in cui l’accende è la fine del 2019, sente parlare di un virus che ha colpito la Cina, un mese e mezzo dopo sente che è arrivato in Italia, ma non capisce che cosa sia. «Immaginavo una forte influenza, forse un po’ più forte del solito, ma non potevo immaginare cosa stesse succedendo al mio paese, che è tra Crema e Codogno». Poi l’uomo della radiolina torna e porta le ultime notizie: quel virus sta facendo strage in Europa e negli Stati Uniti. «Erano su di giri, contenti, festeggiavano e ripetevano che era il flagello di Dio contro l’Occidente. Poi arrivarono le notizie che i contagi si erano estesi ai paesi arabi e nel nord Africa e i loro toni si smorzarono, gli entusiasmi si spensero».

Il libro di padre Pier Luigi Maccalli, “Catene di libertà. Per due anni rapito nel Sahel”, edito da EMI

«Mi hanno rubato due anni di vita e di missione, che significavano due anni di alfabetizzazione, scuola, costruzione di pozzi. Ho fatto pace con tutto questo solo dopo l’abbraccio della mia famiglia e della mia diocesi, che hanno vegliato, mi hanno atteso, hanno pregato tutte le sere e non hanno mai perso la speranza. Quell’abbraccio mi ha allargato il cuore e mi ha commosso. Oggi guardo a questi due anni come ai più fecondi del mio ministero missionario. Ho pianto al ritorno, sono stati due anni pieni di lacrime, la pioggia che ha irrigato il mio deserto».

Padre Maccalli è stato liberato l’8 ottobre del 2020, ma tra le dune altre donne e uomini erano rimasti prigionieri, tra loro una suora colombiana, Gloria Cecilia Narváez Argori, che dopo 4 anni e 9 mesi ha ritrovato la libertà soltanto due settimane fa.

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