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2 Aprile 2020

La genetica dello schermo

Ogni fotografo vorrebbe documentare l’emergenza dalla prima linea. Marco Zanella, del collettivo Cesura, ha dovuto rinunciare perché si è ammalato di Covid-19. Chiuso in casa, però, ha trovato il suo modo di osservare il mondo
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«Nelle prime due settimane ho provato un grandissimo senso di frustrazione: volevo andare a fotografare l’emergenza, le piazze e le strade vuote, fare come tutti i miei colleghi, ma non potevo uscire. Io ho un bisogno quotidiano e costante di fotografare e così ho cominciato un diario quotidiano di schermi. Per me il mondo in questo tempo è stato uno schermo, la mia finestra sull’esterno». Marco Zanella, 35 anni, fotografo di Parma, si è ammalato nel fine settimana in cui abbiamo scoperto che il coronavirus era arrivato anche in Italia.

«Domenica 23 febbraio – racconta – ho cominciato a non sentirmi bene, mi sono messo a letto, avevo un po’ di febbre e la tosse, poi mi sono venuti i dolori al petto e nei giorni successivi la febbre è diventata alta. Abito a Pianello Val Tidone, tre quarti d’ora di macchina da Codogno, leggevo le notizie dal computer, ma non mi sfiorava nemmeno lontanamente l’idea di poter essere uno dei malati di coronavirus». Neanche il suo medico lo pensava. Non si riusciva a immaginarlo. Così dopo due settimane, quando sembrava tutto superato, Marco ha provato a uscire per fare una passeggiata in solitaria sul fiume.

Il giorno dopo ha iniziato a sentirsi male di nuovo. «Mi bastava mettere la testa fuori dalla finestra per avere un peggioramento. Da allora mi porto dietro la tosse e un senso di stanchezza cronica, di sfinimento». Da quel momento, ha capito che non si doveva più muovere da casa; un suo amico e collega, Giorgio Salimeni, faceva la spesa per lui e gliela recapitava. Marco ha trovato pure un altro medico, che dai sintomi ha ricostruito la diagnosi: con ogni probabilità, Covid-19 (anche se a Marco non è mai stato fatto il tampone).

La passione per il mestiere, insieme alle macchine fotografiche, Marco l’ha ricevuta in eredità da uno zio, che morì quando lui aveva vent’anni. Otto anni fa è arrivato in Val Tidone, dove è diventato assistente del fotografo di Magnum, Alex Majoli, entrando poi a fare parte anche lui del collettivo Cesura. Il suo progetto più forte è un lungo viaggio che porta avanti da anni nel Sud Italia per documentare il contrasto e la sospensione tra la contemporaneità e le tradizioni più profonde.

Un viaggio tra le gente, oggi sostituito da un diario di schermi: «Quello che è successo è quasi un destino segnato. Prima di tutto, faccio parte di una generazione che potremmo chiamare “Retina”, intendendo con questo il “retina display” ad alta definizione degli iPhone più che quella dei nostri occhi, e poi io sono nato e cresciuto con gli schermi dei computer». Infatti, nello stesso anno in cui è venuto al mondo, suo padre aprì uno dei primi negozi di computer a Parma e gli schermi diventarono subito il suo passatempo principale. «Quando ho cominciato a lavorare con Majoli, è cambiato tutto; potrei dire che mi ha preso a calci per farmi tirare fuori la testa dal monitor, per farmi uscire a confrontarmi con il mondo. E ci era riuscito. Ma forse alla fine non si sfugge al proprio karma e così lo schermo è tornato a essere la mia finestra sul mondo. Tutti a fare foto per strada e io di nuovo davanti allo schermo: devo averlo scritto nel Dna».

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