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27 Febbraio 2020

La fatalità del virus

Nel suo volume “Spillover”, scritto otto anni fa, il giornalista americano David Quammen aveva già spiegato l’epidemia con cui siamo alle prese
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C’è un libro in cui era già scritto tutto. Perché certe volte la storia si ripete, con gli stessi errori, le stesse lentezze burocratiche, le stesse sottovalutazioni, ma anche con gli stessi eroismi di medici e infermieri e – si spera – con lo stesso esito positivo. Parlo dell’epidemia di coronavirus Covid-19 e parlo di un libro che si intitola “Spillover”, scritto dal giornalista scientifico americano David Quammen.

Questo volume dalla copertina nera, uscito nel 2012 e pubblicato in Italia nel 2014 da Adelphi, è uno dei miei libri preferiti, per il giornalismo che contiene e per la capacità di analisi dell’autore. Lo tengo nello scaffale dei libri preziosi. Contiene un lavoro da detective per capire e spiegare le malattie che ci troviamo ad affrontare, le zoonosi, cioè le infezioni animali trasmissibili agli esseri umani. «Ne esistono molte più di quante si potrebbe pensare – scrive Quammen – a partire dalle varie versioni dell’influenza. Guardandole da lontano, tutte insieme, queste malattie sembrano confermare l’antica verità darwiniana: siamo davvero una specie animale, legata in modo indissolubile alle altre, nelle nostre origini, nella nostra evoluzione, in salute e in malattia».

Il libro va alla ricerca delle radici dell’Aids (che passa da uno scimpanzé a un essere umano nel 1908, per incubare poi per più di 70 anni), dell’ebola e infine della Sars (Sindrome respiratoria acuta grave), esempio perfetto di quanto sia importante individuare il paziente zero e di come, nell’era dei trasporti globali, i virus possano diffondersi a una velocità prima sconosciuta.

“Spillover”, nel senso di propagazione, sconfinamento dalla specie animale a un’altra specie, quella umana. Di fronte a questo, ciò che conta è la velocità con cui si riconosce il nuovo virus, la capacità di isolare i malati e di prendere precauzioni per difendere la collettività. Il libro racconta come la Sars si diffuse nel mondo e sembra di leggere un resoconto di questi giorni. L’indagine sul campo e lo studio di Quammen sono un esempio prezioso. Ne trascrivo i passaggi cruciali.

«A fine febbraio 2003, la Sars prese un volo da Hong Kong e sbarcò a Toronto. Del suo arrivo in Canada nessuno si accorse, ma nel giro di pochi giorni la sua presenza si fece sentire. Il virus uccise la signora di 78 anni che l’aveva portato con sé in quel volo e si prese anche suo figlio, una settimana più tardi. Si diffuse nell’ospedale in cui l’uomo era stato curato e con notevole rapidità infettò centinaia di cittadini di Toronto, 31 dei quali morirono. Una delle persone contagiate era una filippina di 46 anni che lavorava in Canada come infermiera; la donna tornò a casa per Pasqua, iniziò a sentirsi male il giorno dopo l’arrivo (ma continuò ad andare in giro, fare compere, visitare i parenti) e diede il là a un focolaio epidemico sull’isola di Luzon. La Sars aveva quasi fatto il giro del mondo, dall’Asia al Canada e viceversa, in sei settimane e con sole due tratte aeree».

«Nel frattempo, il virus era sbarcato a Singapore, in Vietnam, in Thailandia, a Taiwan e a Pechino. Ad Hanoi, un uomo d’affari sino-americano che era arrivato lì da Hong Kong mostrò sintomi così gravi che fu convocato il dottor Carlo Urbani, medico e parassitologo responsabile locale del settore Malattie infettive per l’Oms. Il paziente morì nel giro di 10 giorni; il dottor Urbani dopo un mese. Fu colto dai sintomi su un volo per Bangkok, dove si stava recando per un convegno a cui non prese mai parte».

«La Sars non si originò, in realtà, a Hong Kong, che fu solo la porta per la sua diffusione planetaria, anche se la culla della malattia si trovava poco distante. Il fenomeno era iniziato senza fare troppo rumore qualche mese prima, nella provincia di Guangdong, una zona nota per essere crocevia di commerci e per le sue peculiari tradizioni culinarie. Il 16 novembre 2002 un quarantaseienne di Foshan fu colpito da febbre e difficoltà respiratorie. Secondo gli epidemiologi, spetta a lui il titolo di primo paziente di questa nuova malattia. L’uomo contagiò a catena varie persone: la moglie, una zia che gli fece visita in ospedale, il marito e la figlia della zia. Il suo nome non è stato svelato; di lui si sa soltanto che era un impiegato del governo locale. Un dato interessante, col senno di poi, è il fatto che avesse cucinato in precedenza piatti che prevedevano come ingredienti pollo, gatto, serpente. Mangiare serpenti non è insolito nel Guangdong».

«A fine gennaio, un commerciante all’ingrosso di prodotti ittici fu ricoverato in un ospedale di Canton, da dove partì la serie di contagi che di lì a poco avrebbe fatto il giro del mondo. Il commerciante si chiamava Zhou Zuofeng e ha l’onore di essere considerato il primo super-untore dell’epidemia di Sars. Questi pazienti, per qualche motivo, riescono a infettare direttamente molte più persone della media. Nessuno ha mai scoperto come Zhou si sia contagiato, ma il suo negozio era situato in un mercato affollato ed è possibile che la sua attività lo portasse a frequentare luoghi dove si vendevano animali vivi, uccelli e mammiferi selvatici.

Sia come sia, il patogeno prese dimora nel suo corpo, arrivò nei polmoni e causò tosse e febbre alta, il che lo spinse a rivolgersi all’ospedale il 30 gennaio 2003. Fu ricoverato lì per soli due giorni, periodo in cui riuscì a infettare almeno 30 membri del personale sanitario. In un secondo ospedale dove fu trasferito, contagiò 23 tra medici e infermieri,18 tra pazienti e visitatori, oltre a 19 membri della sua famiglia. Zhou guarì, ma molti di quelli che aveva contagiato non furono altrettanto fortunati».

«Uno dei casi secondari era un medico di 64 anni, di nome Jianlun Liu, professore nell’ospedale universitario di Canton, dove Zhou era stato ricoverato. Prima di ammalarsi, partecipò al matrimonio di una nipote a Hong Kong. Passò la serata con i parenti e poi si ritirò all’hotel Metropole, un grande albergo molto frequentato da turisti e uomini d’affari. La sua stanza era la 911, davanti agli ascensori e a metà di un lungo corridoio. Quella sera al Metropole si verificarono due eventi fatali.

Il professore si sentì male e pare che a un certo punto abbia starnutito, tossito o vomitato (decidete voi a quale delle versioni credere) nel corridoio del nono piano. Il suo gesto rilasciò nell’ambiente una dose massiccia del patogeno che l’aveva attaccato, dose sufficiente a infettare almeno 16 ospiti e un visitatore dell’albergo. Tra gli ospiti del nono piano c’era la settantottenne proveniente dal Canada di cui abbiamo già parlato. Era venuta a trovare la famiglia a Hong Kong e aveva passato parecchie notti al Metropole assieme al marito. La sua stanza era la 904, a pochi passi da quella del professore.

I due si trovarono nello stesso albergo solo per una notte. Forse presero l’ascensore insieme. Forse si sfiorarono nella hall. O forse non si incontrarono mai: nessuno lo sa. Si sa però che l’indomani Liu stava malissimo e fu ricoverato nell’ospedale più vicino. Morì il 4 marzo. Il giorno dopo l’anziana canadese lasciò l’albergo, perché la sua vacanza era terminata. Già infetta, ma asintomatica e probabilmente senza alcun segno premonitore, prese un volo per tornare a casa a Toronto. La Sars divenne così un problema globale».

La Sars infettò ottomila persone e fece 774 morti, ma non si è più ripresentata dopo il 2013. Per fortuna – scrive Quammen – i sintomi di questa forma di coronavirus erano molto forti e comparivano prima del picco di infettività. Diverso sarebbe stato se la Sars si fosse comportata come l’influenza comune, in cui il picco dell’infettività precede l’insorgere dei sintomi: «È una modalità di azione perversa, in cui il colpo precede l’avvertimento. È ipotizzabile che la prossima Grande Epidemia, quando arriverà, si conformerà al modello dell’influenza e in questo caso si sposterà da una città all’altra sulle ali degli aerei».

Esattamente quello che è successo.

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